lunedì 7 novembre 2016

Repubblica 7.11.16
Jihan e le altre le combattenti che sfidano l’Isis
di Giampaolo Cadalanu

ERBIL CAPELLI lunghi sotto l’elmetto,trucco attorno agli occhi: l’incubo dei più fanatici miliziani di Al Baghdadi ha nomi di donna. Per i difensori del Califfato, affrontare le soldatesse è molto rischioso: la loro lettura oscurantista dell’islam prevede che chi viene ucciso da una donna sia disonorato al punto da essere escluso dal Paradiso. Per questo la presenza delle truppe femminili ha un significato psicologico particolare nell’offensiva contro il sedicente Stato Islamico. E proprio per questo l’annuncio del “via” alla battaglia per Raqqa, la capitale siriana del Califfato, è stato affidato a una donna, Jihan Cheikh Ahmad, ufficiale delle Syrian Democratic Forces, l’organizzazione che riunisce milizie curde, arabe e di etnie diverse. Le Sdf, sostenute dagli Stati Uniti, sono considerate forza armata del Rojava, l’entità territoriale curda di ispirazione laica nel nord della Siria.
A meno di tre settimane dalla partenza dell’offensiva su Mosul, adesso tocca alla città siriana. Nella capitale irachena del sedicente Stato islamico gli scontri sono furiosi, l’esercito di Bagdad avanza lentamente, casa per casa, con un alto costo di sangue. Ma lo schieramento a guida occidentale – che esclude la Turchia, visto che Ankara considera i curdi delle Unità di protezione popolare, le Ypg, come alleati del Pkk, il partito curdo dei lavoratori denunciato come terrorista non vuole dare all’Isis la possibilità di tirare il fiato, neanche rifugiandosi oltre il confine. Tanto più che l’arrivo delle milizie sciite sembra aver chiuso ai fondamentalisti la strada alla ritirata verso la Siria. Nella lotta contro l’organizzazione integralista anche le sfumature psicologiche hanno il loro peso, perché lo scontro con il Califfato si nutre anche di significati simbolici, e la presenza femminile è un segnale facilmente alla portata delle masse arabe conservatrici. Oltre alle truppe del Rojava, la presenza femminile è tradizione consolidata fra le forze curde irachene, sia come Peshmerga (l’Esercito del Kurdistan) che come Zeravani (i militari dipendenti dal ministero dell’Interno).
A Suleimaniya gli istruttori italiani stanno addestrando un battaglione di cinquecento donne, altre 150 hanno seguito i corsi base a Erbil, altre ancora sono seguite da addestratori britannici. La leggenda vuole che ogni soldatessa porti addosso un proiettile destinato a sé stessa, per non cadere viva nelle mani dei miliziani di Al Baghdadi. Ma al di là della mitologia, chi ha conosciute le soldatesse curde parla di motivazione altrettanto forte rispetto a quella degli uomini. Alcune hanno una storia personale che le porta ad imbracciare il kalashnikov: un padre o un marito ucciso dagli integralisti. Questo vale ancora di più per le donne yazide, che sentono la responsabilità di vendicare le compagne. Le più giovani erano state prese prigioniere durante l’attacco alla zona di Sinjar, trasformate in schiave sessuali, abusate e magari vendute come oggetti, attraverso un annuncio su internet. Le più anziane, invece, erano state uccise e spesso gettate in fosse comuni.