domenica 6 novembre 2016

Repubblica 6.11.16
“Basta con il cognome del padre” la Consulta decide sull’ultimo tabù
Martedì l’udienza sul ricorso di una coppia che voleva dare al figlio anche il nome della madre, scelta fino a oggi impossibile
di Maria Novella De Luca

ROMA. L’hanno chiamata la “battaglia del cognome materno”, se ne discute da 40 anni, ma finora le donne hanno sempre perso. Quando nasce un bambino, in Italia, qualunque sia la volontà dei genitori, il suo cognome sarà sempre e soltanto quello del padre. Pater familias. Sangue e discendenza. Così, nei secoli. Come se il diritto al “nome della madre”, nonostante migliaia di ricorsi, e una sentenza contro l’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, fosse qualcosa di superfluo, non fondamentale, insomma rinviabile. E la legge che finalmente sancisce la possibilità per i figli ad avere entrambi i cognomi, approvata alla Camera nel 2014, langue da due anni nei cassetti del Senato. (L’unico modo per ottenere il doppio cognome è quello di fare richiesta al Prefetto, come si fa, ad esempio, quando il proprio cognome è ridicolo o offensivo. Ma la concessione è, appunto, a discrezione del Prefetto).
Tra due giorni però la Consulta dovrà tornare ad esprimersi sulla “battaglia del nome materno”, con una sentenza che potrebbe definire incostituzionale l’attuale “automatismo” della nostra legge, per cui ad ogni bambino viene imposto, di prassi e senza appello, il nome del padre. Un tema che tocca radici profonde, al di là dell’aspetto burocratico, il senso di identità e la parità, e forse per questo è oggetto di tanta resistenza.
Eppure già in una sentenza della Corte Costituzionale del 2006, il sistema attuale veniva definito «retaggio di una concezione patriarcale della famiglia e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con il valore costituzionale dell’uguaglianza uomo donna». Anche se, in quel caso, la Consulta aveva poi concluso che toccava al Parlamento riscrivere la legge per superare quella discriminazione. Sono passati dieci anni e praticamente nulla è accaduto.
Il caso che potrebbe finalmente attuare la rivoluzione del cognome materno, nasce dal ricorso di una coppia italo-brasiliana residente a Genova, che aveva chiesto di poter registrare il proprio bambino con il doppio cognome. Sia in virtù di un concetto di parità, ma anche per armonizzare la condizione anagrafica del piccolo, che ha la doppia cittadinanza, tra il Brasile dove è identificato con il nome materno e paterno, e l’Italia dove ha soltanto il cognome del padre. Ma la richiesta della coppia, assistita dall’avvocata Susanna Schivo, era stata respinta, per quella “norma implicita” secondo la quale ai figli nati nel matrimonio va attribuito soltanto il cognome paterno. (Diverso il caso delle coppie di fatto, dove il bimbo se non viene subito riconosciuto dal genitore, ha automaticamente il nome della madre).
«È incredibile che l’Italia sia così indietro su questi diritti, l’inerzia delle istituzioni dimostra quanto il patriarcato sia ancora profondo nel nostro paese», spiega Antonella Anselmo, avvocata e componente della “Rete per la parità”, associazione fondata da Rosa Oliva, prima donna prefetto in Italia. «La Consulta deve dichiarare incostituzionale la discriminazione della madre nell’attribuzione del cognome. È un fatto di enorme portata simbolica ed educativa. Come possiamo insegnare ai giovani la parità, il rispetto dei generi, se comunque lo Stato alla nascita li identifica soltanto con il nome del padre? E l’Italia è rimasta tra gli ultimi paesi in Europa a difendere questo baluardo di maschilismo... ».
Sappiano che la forma è sostanza. Ma le resistenze sono forti. Basta ripercorre l’incredibile storia parlamentare delle dieci proposte di legge mai approvate, e dei tanti interventi di deputati (maschi) che invocavano in aula il “diritto del sangue”, o l’identificazione della famiglia con il padre.
In realtà, invece, le battaglie di tante coppie per il doppio cognome sono state spesso portate avanti in assoluta armonia tra entrambi i genitori. Come nel caso, famoso, di una coppia milanese, Luigi Fazzo e Alessandra Cusan, che alla nascita della loro prima figlia Maddalena, chiesero di poterla registrare con i nomi materno e paterno. «Naturalmente ci risposero di no», ricorda oggi Luigi Fazzo, avvocato, «ma dopo quel “no”, noi abbiamo continuato a combattere in nome di un diritto civile, che ci ha portato fino alla Corte europea dei diritti dell’uomo». Si deve infatti alla tenacia di Luigi Fazzo e Alessandra Cusan se nel 2014 Strasburgo ha condannato il nostro paese, accusato di «violare il divieto di discriminazione tra uomo e donna», con la normativa che impedisce la trasmissione del cognome materno e impone quello paterno. Una condanna così netta che il Parlamento ha finalmente votato nel 2014 una legge, oggi arenata al Senato. «Quella battaglia noi l’abbiamo persa — dice Fazzo — e così abbiamo dato ai nostri tre figli il doppio cognome per via amministrativa. Ma è evidente che la legge deve cambiare, l’Italia su questo fronte è ormai fuori tempo massimo».