il manifesto 6.11.16
Trump è un azzardo, ma non l’ignoto
Stati
uniti. Trump ha finito per essere visto come il paladino della riscossa
contro lo status quo. Un voto per lui sarà un azzardo. Per Hillary una
certezza, la certezza del ripetersi del già noto
di Guido Moltedo
Immaginiamo
una coppia di giovani a Manhattan, laureati, professionisti, buone
letture, rigorosamente no junk food, viaggi in Europa. Benestanti.
Progressisti. I classici liberal. Figli di famiglie liberal.
Immaginiamoli
nel loro confortevole appartamento mentre guardano in tv uno dei tre
duelli televisivi tra Clinton e Trump. «Ancora lei? Basta. Però quando
affronta i temi, beh si vede che è preparata, ha studiato, sa quel che
dice. Non ha il carisma di Bill, neppure di Barry, però è presidential.
Specie se la mettiamo a confronto con quel cialtrone dalla zazzera
antipatica, indisciplinato, maleducato, che straparla di muri di
confine, che deride un portatore d’handicap, che s’inchina a Putin, che
manda a quel paese gli alleati storici dell’America, che insulta i
musulmani e i messicani, che denigra le donne, che fa promesse
mirabolanti per la crescita. Più che ragionamenti un flusso di
coscienza, libere associazioni. Ma davvero quel bullo lì può diventare
il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti. Su, andiamo». Risa e
sghignazzi.
Era il momentum di Hillary, l’onda che sembrava
sospingerla senza più fatica verso la Casa bianca. Lo dicevano i
sondaggi. Ma ancor di più
il circuito autoreferenziale del mondo progressista, delle città, delle università, delle élite.
Oggi, a poche ore dal voto, c’è poco da ridere. Trump, più che una macchietta, è una vera, reale, minaccia.
Eppure,
già in quei giorni, quegli stessi dibattiti erano visti con occhi
diversi da un’altra grande porzione d’America, l’America rurale, bianca,
e l’America deindustrializzata dei centri un tempo floridi e oggi
letteralmente arrugginiti.
Il New York Post, in occasione del
primo dibattito tv, quello che a detta di tutti ha definitivamente
incoronato Hillary, va a sondare gli umori in un bar di Youngstown,
un’area degradata della Pennsylvania, un tempo ben messa. E intervista
gli spettatori del duello tv. «Arrivati alla fine del dibattito, Clinton
non ha detto una sola cosa da offrire a me e alla mia comunità», dice
al Post Ken Reed, elettore democrat.
Nel commentare il servizio
del Post, l’editorialista Leon Hadar osservava che tra Manhattan e
Youngstown ci sono solo poche ore d’auto. Eppure sono due pianeti
diversi. Planet Hillary e Planet Donald. Da cui si osserva il mondo in
modo opposto.
Hadar, come diversi altri commentatori, spiega il
fenomeno Trump con una chiave economica e di classe. Hillary, per la
working class, è l’emblema dell’America benestante, sostenuta proprio
per questo dalle élite urbane, è il simbolo di un potere politico che ha
arricchito se stesso impoverendo «Joe», l’americano medio. Donald è il
campione della lotta a tutto questo e ciò che è considerato il mix di
cause, vere e mitologiche, che ha portato al declino americano.
Le
due narrative in conflitto hanno un fondamento indiscutibile. Ma c’è
un’altra dualità che conta. Psicologica, e non solo. Sul New York Times
Ross Douthat osservava qualche tempo fa che, secondo la propaganda
clintoniana, votare per Hillary, contro Trump, «non è solo un voto per
una democratica contro un repubblicano, ma è un voto per la sicurezza
contro il rischio, per la competenza affidabile contro l’incoscienza
sbruffona, la stabilità psicologica alla Casa bianca contro le passioni
ingovernabili».
Eppure proprio questo evidente contrasto rafforza
il punto di vista dei trumpisti e, in qualche modo, alimenta
l’incertezza degli indecisi, anche in campo democratico.
Douthat
scrive che, tra i sostenitori di Trump, gira una sorta di slogan: «We’ve
made sane, now let’s try crazy». L’abbiamo fatto da sani di mente,
adesso proviamo a farlo da pazzi. È come in un volo dirottato da un
gruppo suicida. I passeggeri cercano di entrare nella cabina di
pilotaggio, non sanno niente di volo, ma cercano di fare quel che
possono per scongiurare la catastrofe certa.
I pericoli di una
presidenza Clinton sono noti. Quelli di una presidenza Trump,
immaginabili. Ma più seri? Forse i rischi di un’amministrazione Clinton
appaiono minori solo perché «familiari», eppure non ci vuol tanto a
ricordare gli ultimi quindici anni di politica internazionale americana,
nei quali Hillary ha avuto una parte importante.
Una politica che ha visto unite entrambe le parti politiche negli snodi cruciali.
Il
voto all’intervento in Iraq fu largamente maggioritario. Fu un voto
dell’establishment, non una leggerezza di Hillary e di altri politici
del tempo.
Stesso discorso per la bolla finanziaria, figlia di un’economia alimentata da un establishment bipartisan.
Ecco
perché Trump ha finito per essere visto come il paladino della riscossa
contro lo status quo. Un voto per lui sarà un azzardo. Per Hillary una
certezza, la certezza del ripetersi del già noto.
Che queste
connessioni, che simili equazioni, abbiano senso non è importante, per
elettori che pensano di non avere molto da perdere, puntando sul rischio
sconosciuto. Eppure sfugge loro proprio l’evidenza di un candidato che
si professa anti-sistema ma del sistema è figlio, non solo come
imprenditore senza scrupoli e affarista che ha fatto soldi in combutta
con la politica. Egli è figlio, sebbene non riconosciuto, di una destra
americana che ha coltivato per un ventennio, con passione, l’odio,
l’autoritarismo e la sopraffazione. Trump è tutto questo. Non è
l’ignoto. Anche lui, come Hillary, è lo stranoto.