il manifesto 6.11.16
Elezioni Usa: Neodestra, nascita di una fazione
Stati
uniti. La parabola del trumpismo, da Ronad a Donald, iniziando da
Goldwater e Nixon passando per McCarthy, Gingrich, Buchanan... La
traiettoria delle «brigate del rancore» create per ottenere il «governo
minimo», cresciute come massa d’urto e ora sfuggite al controllo del
partito repubblicano. Anzi, al controllo di chiunque
di Luca Celada
Come
Brexit in Gran Bretagna, l’ascesa fulminea del trumpismo in America
rappresenta il compimento di un riallineamento tellurico degli
schieramenti nelle democrazie occidentali. La globalizzazione che ha
fatto la fortuna delle oligarchie finanziarie e delle emergenti classi
consumiste in Asia, ha decimato lavoratori e classi medie in occidente,
rottamando con impressionante velocità tradizionali dinamiche
ideologiche di classe a favore di politiche identitarie ed emozionali.
NEL
GIRO DI 15 ANNI ad esempio la critica no global progressista, ha
lasciato il posto al rigurgito xenofobo e nativista di ampi settori
sociali esautorati dal sistema dei profitti, che in America come in
Europa si sono aggregati attorno a movimenti populisti speculari.
Trumpismo, leghismo, putinismo e l’assortimento di nazional-populismi
europei hanno sostituito rivendicazioni sociali e ideologiche con un
conato nichilista dai riflessi suprematisti e razzisti.
Ad un
livello «psichico» profondo, la presenza di un uomo nero alla Casa
bianca ha catalizzato antiche fobie, riportando allo scoperto odi
occultati dalla patina di correttezza politica (non a caso proprio la
lotta alla ‘correttezza’ è stata un cavallo di battaglia preferito del
nuovo populismo americano come di quello europeo). Emancipato dalla
«schiettezza» del capo, il popolo trumpista ha potuto riprendere la
guerra (in)civile senza più preoccuparsi di dissimulare le pulsioni
razziste in una dialettica presentabile.
IL TRUMPISMO ha abilmente
strumentalizzato il risentimento per la perdita di potere d’acquisto e
identità indirizzando le recriminazioni verso spauracchi esterni, oltre
frontiera o oltremare. Come il leghismo ha metabolizzato il fallimento
della globalizzazione neoliberista attraverso la recrudescenza populista
e xenofoba, esattamente come in Europa. Due anni prima delle barricate
di Gori i bravi cittadini californiani di Murrieta avevano organizzato
posti di blocco e dato fuoco ai copertoni per per fermare i pullman di
donne e bambini centroamericani diretti ai centri di accoglienza, col
plauso di molti esponenti della destra repubblicana. L’occupazione di un
rifugio ornitologcio da parte dei prodi armati del clan Bundy –
trumpisti ante litteram – è stata l’equivalente del tanko dei
serenissimi a piazza San Marco. Tutto, si capisce, nel nome della difesa
della sovranità territoriale contro i «soprusi del governo centrale».
TUTTO
CIÒ non si è sviluppato nel vuoto. Da trent’anni la guerra allo stato,
per un governo minimo, è stato un caposaldo della retorica repubblicana,
la dottrina di una destra in una lunga deriva integralista.
L’escalation è iniziata con la campagna «insurrezionalista» di Barry
Goldwater nel 1964 e continuata con Nixon, in seguito con le frange
evangeliche attivate come forza politica da Reagan, e proseguita ancora
con le culture wars di era Bush e neocon.
Un percorso che ha
accentuato ad arte paranoia e manie complottiste per accrescere un’utile
alienazione. Trump in questo ha avuto molti cattivi maestri, intanto
Joe McCarthy, poi Pat Buchanan e Newt Gingrich, antesignano manipolatore
quest’ultimo di rabbia populista, architetto della republican
revolution del 1994 e fautore della mutazione genetica della politica in
lotta senza quartiere.
La storia delle elezioni 2016 riguarda in
gran parte come le frange coltivate da quel processo siano sfuggite al
controllo del partito per diventare le brigate insorgenti di un leader
in grado di esprimere catarticamente il rancore covato ed esacerbato da
decenni di promesse non mantenute.
DIETRO LA CATARSI antipolitica
di Trump ci sono insomma decenni di strumentale demagogia che da oggi i
suoi frutti avvelenati – comprese le relazioni pericolose con
neonazisti, suprematisti e alt right che non nascondono il proprio
entusiasmo per un paladino così affine alle proprie sensibilità.
Nella
strategia della terra bruciata, la revolution di Gingrich ha divorato i
propri figli deformi. La sistematica divisione seminata dalle «guerre
culturali» (su moralità patriottismo, sesso, religione) hanno coltivato e
abilitato pericolosi estremismi, una successione di frange dalla silent
majority alla moral majority al tea party, galvanizzate dalle battaglie
contro la modernità della società multiculturale americana.
PER
ACCATTIVARSI gli integralisti teocon, la destra è giunta a combattere
Darwin e l’insegnamento dell’evoluzione e della scienza nelle scuole
pubbliche, dando corda all’anti-intellettualismo di cui Trump è il
perfetto erede. Il sistematico abbassamento del discorso al minimo
comune denominatore, sbandierato come orgoglio anti–elitista, ha
rappresentato, come altrove, una rincorsa verso il basso sfociata nella
liberatoria retorica del «vaffa» in cui Trump, e tanti attuali
populisti, eccellono.
II trumpismo esprime quindi il compimento di
un fisiologico mutamento della politica. Parallelamente al declino del
giornalismo, la saturazione internet e social ha inaugurato la
dialettica post-fatti e post-realtà di cui questa campagna è la
didascalica rappresentazione. Non è un caso che la campagna di Trump sia
stata pilotata da Stephen Bannon, direttore dei siti Breitbart, i
principali aggregatori online della galassia alt-right. Adattando al
nuovo discorso reazionario linguaggi e strategie cooptate dalla
controcultura e la ferocia senza mediazione del trollismo internet, la
nuova destra ha scalzato perfino istituzioni che erano state il
fondamento stesso del nuovo movimento conservatore, vedasi la potente
Fox News, attaccata da Trump e improvvisamente nel mirino dei nuovi
giacobini.
LA CAMPAGNA presidenziale del 2016 ha insomma dato la
netta sensazione di una accelerazione della storia. Mentre il progetto
europeo si infrange sulla crisi di sovranità e sull’emergenza
umanitaria, il trumpismo promette di incrinare, forse
irrimediabilmente, il patto sociale americano retto su mobilità sociale e
integrazione.
Il fatto che il bianco incazzato sia diventato lo
strumento della demagogia populista, infine, non impedisce che sia
effettivamente il soggetto politico del momento: orfano politico ed
economico di una implacabile logica del profitto che lo relega al
precariato. Queste elezioni in definitiva rappresentano il fallimento di
quel sistema e quello collettivo di dargli una risposta costruttiva.