domenica 6 novembre 2016

Repubblica 6.11.16
Don DeLillo
Abbiamo rimosso il cuore selvaggio
intervista di Antonello Guerrera

«LE DISPIACE SE MENTRE PARLIAMO MI ALZO UN POCHINO?». Don DeLillo, uomo di cortesia tosta e antica, è provato. Nelle ultime settimane ha presentato in Italia l’ultimo romanzo, Zero K (Einaudi). E adesso ha mal di schiena, una raucedine seducente e nessuna voglia di parlare di elezioni americane: «Sono tempi troppo confusi per esprimersi: dalla geopolitica attuale alle guerre che stiamo combattendo, non riesco ad avere un quadro chiaro della situazione». Del resto, il grande scrittore statunitense, figlio di molisani immigrati a inizio secolo scorso nel Bronx di New York, non è stato mai un intellettuale impegnato. E nemmeno scontato.
E perché, signor DeLillo?
«Perché un romanzo non deve necessariamente sollevare un dibattito sociale. C’è chi spende decine di milioni di dollari come Oliver Stone per girare un film come JFK, totalmente inutile. Se un libro ha un simile obiettivo iniziale muore in partenza. Questa non è vera letteratura. La vera letteratura è libera».
E allora raccontiamo l’America, sventrata dal bivio tra Clinton e Trump, proprio attraverso la letteratura e il cinema. Che “valgono la vastità” degli Stati Uniti, direbbe Sinclair Lewis. Perché DeLillo è uno dei romanzieri più visual. Insaziabile cinefilo, applica l’iconografia anche alla scrittura: «Parto sempre da un’immagine», spiega. «Anche la disposizione delle parole è fondamentale in un libro».
In che senso?
«Quando finisco di scrivere una pagina, mi deve piacere anche la sua estetica. Come sono disposte le parole, come girano i capoversi, come se fossi un artigiano».
Questo è dovuto anche alla sua passione per il cinema?
«I film hanno spesso cambiato l’arte che sentivo dentro, soprattutto negli anni Sessanta. Non il cinema hollywoodiano che appaltava il Bronx, ma Antonioni, Godard, Truffaut, Kurosawa».
E il cinema americano? Non le piace?
«È stato insuperabile negli anni Sessanta e Settanta, quando ha acquisito una identità molto forte grazie a Coppola, Scorsese e Il mucchio selvaggio di Sam Peckinpah ».
Cosa aveva in più quel cinema? Perché incarnava più di tutti l’anima americana?
«Perché esprimeva la bellezza e la violenza, due concetti essenziali degli Stati Uniti. Il cinema americano ha fornito le immagini più straordinarie di questo Paese quando ha narrato l’efferatezza: Bonnie e Clyde, Il Padrino, il Malick di Badlands, persino la fantascienza di 2001: Odissea nello Spazio ».
E poi cos’è successo?
«Il cinema Usa si è fermato. Ha ripudiato l’America
profonda. E oggi mi sfugge il suo senso. Non riesco più a trovare tendenze o significati in esso».
Quindi di recente non ha individuato neanche un film che rappresenta la storia o la cultura americana?
«No. Neanche gli ultimi due Malick. L’unico film che ho apprezzato è stato Chronic, di Michel Franco (e con Tim Roth, ndr). Racconta due grandi incognite della società, il disagio interiore e il dramma del fine vita».
E in letteratura chi sa raccontare meglio gli Stati Uniti oggi?
«Cormac McCarthy. Dal West al paese profondo, è inarrivabile. Anche perché è americano da generazioni, senza contaminazioni europee o asiatiche come il sottoscritto o Philip Roth. Come lui forse ci sono stati solo Steinbeck e Hemingway, anche per come hanno cambiato i romanzi e la lingua».
Anche la letteratura americana ha dato dunque il meglio di sé con la violenza?
«Diciamo che gli scrittori nel Ventesimo secolo hanno imparato a essere oppositori. E a raccontare la violenza. L’assassinio di Kennedy nel 1963 ha cambiato profondamente gli Stati Uniti: quel giorno a Dallas è nata l’anima nera dell’America moderna. Lo abbiamo visto con i riots, con il tentato omicidio di Reagan, con la stessa guerra in Vietnam, che ho sempre considerato uno sfogo di violenza interna».
E oggi che ne pensa dei giovani scrittori americani, da Ta-Nehisi Coates a Colson Whitehead?
«Ce ne sono di bravi, direi innanzitutto due donne: Dana Spiotta (in Italia è uscito Versioni di me, minimum fax) e Rachel Kushner ( I lanciafiamme e Braci nella notte, Ponte Alle Grazie). Certo, tempo fa avrei detto David Foster Wallace. Ma purtroppo... E poi Jonathan Franzen».
“Libertà” di Franzen è stato considerato da alcuni l’ultimo grande romanzo americano.
«Ma il grande romanzo americano è un’entità ormai senza significato. L’ultima volta che ne ho discusso con colleghi e amici è stato molti anni fa. Oggi non ne parla nessuno. Non ci sono più i grandi temi nel romanzo americano. I giovani non ne sono più attratti. Adesso le tematiche sono molto più confuse e complesse. Guardi solo la frammentazione che ha provocato il self- publishing, anche per quanto riguarda la lingua, ormai ultra-personalizzata. La cultura è cambiata. E rincorrere i vecchi generi, o queste etichette vetuste, è assolutamente inutile».