domenica 6 novembre 2016

Repubblica 6.11.16
Jeffrey Eugenides, poeta
Il Sogno può diventare un Incubo
intervista di Francesca De Benedetti

UN CORPO ATTRAVERSATO DA IMPULSI OPPOSTI: sì, anche il corpo di una nazione può essere “transgender”. La grande America oscilla tra sogno e incubo, declino e innovazione. Nei suoi cromosomi convivono “la rabbia oscena di Trump” e “la poesia resistente di Dylan”. Le sue forme lunghe chilometri sono percorse da muri invisibili, ma le sue porte rimangono aperte. Fotografia (mossa) di una nazione mutante: la scatta Jeffrey Eugenides, poeta della transizione. Padre di origini greche, madre di origini irlandesi, dal suo sangue migrante sono nati alcuni dei più bei romanzi d’America: Le vergini suicide è il primo, La trama del matrimonio è l’ultimo. Nel mezzo c’è Middlesex, storia di Callie, ermafrodito: quest’opera gli valse il Pulitzer e oggi, per un Paese in cerca di identità, sa di premonizione.
C’era una volta l’America che si entusiasma, l’era dello “Yes we can” di Obama, la parola “speranza”. La nazione che va al voto ora parla ancora quella lingua?
«No, oggi negli Usa la parola “speranza” è geneticamente modificata. Sin dagli anni Novanta di Bill Clinton, hope è stato lo slogan del cambiamento, il passepartout di chi prometteva alternanza. Ma finora è stato un sinonimo di “futuro radioso”, come con Obama, che spinse il Paese fuori dall’era Bush. Oggi invece l’impulso al cambiamento viene incarnato soprattutto dai supporter di Trump, che lo declinano in negativo: “no” ai politici, “no” all’immigrazione. La speranza luminosa è mutata in ombra, il sogno è diventato incubo».
Perché il Paese dell’american dream produce incubi? L’impero è in declino e si sta ripiegando su se stesso?
«Se Trump vincesse mi vergognerei di essere americano, ma rifiuto di credere che accadrà. Non penso che siamo al tramonto, anzi: presto ci sveglieremo dall’incubo. Le tensioni che ci attraversano sono simili a quelle europee, con l’ascesa dei partiti anti-migranti per esempio, ma in America tutto ciò è ciclico. Ogni grande ondata migratoria, come quella che portò qui i miei nonni, è seguita da una contro-spinta conservatrice e dall’innalzamento di “barriere”. Fasi di apertura e chiusura si alternano, ma rimaniamo un Paese con il dna migrante».
Nella “nazione migrante” i confini sono fluidi? L’America che legalizza i matrimoni gay convive con quella che metterebbe un muro al confine con il Messico.
«Gli Usa sono la risultanza di queste due diverse spinte: una in avanti, liberale; l’altra all’indietro, conservatrice. Per “rintracciarle” basta vedere sulla mappa chi vota Clinton e chi Trump. Gli Stati a sud e a ovest sono i più retrogradi: più campagna che città, più povertà che ricchezza, più ignoranza che cultura, più fondamentalismo religioso che laicità. Più Trump che Clinton».
Una volta potevi nascere sul lato povero della mappa e aspirare al meglio: è il mito del “self-made man” d’America. Vale anche nell’era di Trump?
«Sì, anche se lui non è l’esempio giusto. I “ragazzi” della Silicon Valley sì che si sono fatti da soli, da squattrinati a simboli dell’innovazione. “Elevarsi” è ancora possibile: gli studi sulla mobilità sociale in Usa dicono che negli ultimi vent’anni l’”ascensore sociale” ha funzionato. Il problema è che funziona per sempre meno persone. State meglio voi in Germania o Scandinavia. L’american dream non è morto, ma è sotto scacco. Su queste debolezze si radica il trumpismo».
La retorica anti-establishment di Trump è figlia di questa frustrazione?
«Anche. Vede, la metà dei supporter di Trump è quanto di peggio potremmo immaginare. Ma poi c’è l’altra metà, quella che con la globalizzazione e la crisi si è sentita lasciata indietro, come la mia Detroit. Con questi disperati Clinton dovrebbe provare a parlare».
Gli intellettuali intercettano chi è ai margini, o anche la cultura parla a pochi?
«Credo che il tema dell’iniquità socio-economica sia stato sviscerato meno di quello dell’ineguaglianza razziale o di genere, almeno nei romanzi. Agli elettori di Trump parla soprattutto una certa tv, come fu con Berlusconi».
L’università è un laboratorio dell’America futura. Lei insegna a Princeton. Cosa bolle in pentola?
«Professori e studenti puntano molto su razza, genere e identità: nelle aule si lavora per mettere a nudo le schiavitù d’America e dare asilo alle diversità. Vede, la schiavitù per gli Stati Uniti è un passato ingombrante. Nei campus trovano forza i movimenti come #blacklivesmatter. Anche per quel che riguarda il genere c’è grande apertura: quando scrissi Middlesex il clima era diverso, ora invece la “transizione” è ben accetta».
Esistono ancora parole o tabù che finiscono sotto il tappeto? L’America è troppo “politicamente corretta”?
«Sì, rischiamo di finire in trappola: da una parte c’è la retorica dell’odio di destra. Dall’altra, una certa sinistra ha l’ansia della “correttezza” e finisce per neutralizzare il discorso pubblico. L’innovazione richiede che le parole vengano pronunciate. Che la diffusione delle armi sia inaccettabile, per esempio, va detto chiaro e tondo».
Nella nazione delle mutazioni, ci sarà pure un cuore inviolabile, un codice genetico non modificabile: scelga un simbolo dell’identità del Paese.
«Scelgo Bob Dylan, premio Nobel. Mescola influssi europei e pop indigeno. Le sue opere sono “fatte in casa” ma l’esito è complesso. Vanno dritte al cuore ma aprono a interpretazioni e misteri. Mutano, ma resistono al tempo: una poesia resiliente. Così è per me l’America oggi».