Repubblica 6.11.16
Noi malati della Sindrome Trump
di Alexander Stille
LA
PRIMA VOLTA È STATA VERSO METÀ SETTEMBRE. Avevo fatto l’errore di
guardare gli ultimi sondaggi elettorali prima di andare a dormire e mi
sono svegliato alle due di notte con un pugno nello stomaco e in pieno
panico, pensando: «Donald Trump potrebbe davvero diventare il prossimo
presidente degli Stati Uniti». Viviamo — io e molte delle persone che
conosco — in uno stato di pressoché totale ansia da mesi. A New York si
chiama la sindrome Trump e ha vari sintomi: l’abitudine morbosa di
scrutare vari siti di sondaggi molte volte al giorno cercando di intuire
i flussi fluttuanti del voto; lunghe telefonate in cui si raccontano le
ultime uscite oltraggiose di Trump. L’amico all’altro capo del filo le
conosce già tutte, ma ripeterle è una consolazione nell’illusoria
speranza di una catarsi.
Poi, picchi insopportabili di ansia
quando succede qualcosa di brutto: come lo svenimento di Hillary Clinton
il giorno della commemorazione dell’11 settembre, o come la notizia di
nuove informazioni sulla saga infinita delle mail. Infine, ci sono
tentativi (di solito troppo brevi) di disintossicazione, ore o giorni in
cui non si guardano più le notizie sui siti o in tv, e cene che si
interrompono con le grida: «Per favore, basta: non ne parliamo più!».
Non
è un fenomeno ristretto a giornalisti e altri animali politici. Molti
psicoterapeuti parlano di un’epidemia da 8 novembre: pazienti che
cercano aiuto perché stanno soffrendo di forti livelli di ansia
elettorale. Una psicologa di Manhattan citata dalla rivista Slate ha
parlato di una sua paziente che si era rivolta a lei per la prima volta
dopo l’attacco alle Torri gemelle. È tornata sul lettino dopo anni a
causa delle elezioni: l’atmosfera attuale le rievoca il clima cupo del
primo Novecento. I suoi nonni, sopravvissuti all’Olocausto, le avevano
raccontato l’inizio dell’abisso, le avevano spiegato come un Paese che
sembrava normale era improvvisamente cambiato, e diventato
pericolosamente minaccioso. E non è un fenomeno solo di New York:
l’Associazione Psicologica ha riportato che il cinquantadue per cento
degli americani — repubblicani come democratici — stanno sperimentando
alti livelli di stress a causa delle elezioni.
«Non vedo l’ora che
finisca», è la litania che sento tutti i giorni dai miei amici. Vivo in
un ambiente del tutto particolare: la chiamano Repubblica Socialista
dell’Upper West Side, una zona piena di studenti, di professori, di
giornalisti molto più a sinistra del resto del Paese. È un’isola dentro
un’isola dentro un’isola. Per darvi un’idea: già nello stato di New York
i democratici superano gli elettori repubblicani due a uno. Nella città
di New York la proporzione è di oltre sei a uno. E alla Columbia
University dove insegno, nelle donazioni ai due principali partiti i
democratici battono i repubblicani dodici a uno.
Fatta questa
premessa, però, la mia esperienza è più tipica di quanto non si pensi.
Mi irrito quando i miei amici europei mi dicono: “Ma dai, New York non è
l’America”. Basta uscire di poco da Manhattan e si fa presto a
ritrovarsi in zone che hanno le caratteristiche di Trump Country, con
popolazione prevalentemente bianca e meno scolarizzata. Qui trovi un
sacco di insegne con lo slogan “Make American Great Again”. Proprio
questo weekend, in un negozio, mi sono imbattuto in un uomo vestito in
modo strano, un po’ da cowboy, un po’ da motociclista con una lunga
barba bianca e una t-shirt con la scritta “Hillary for Prison!”. Diceva:
«Non riesco a concepire come una persona minimamente intelligente possa
votare per quella donna!». Ho taciuto per non cominciare una lite, ma
ho pensato: «Un altro deficiente». Ma, allo stesso tempo, ho dovuto
riconoscere che questo signore era esattamente il mio doppio.
Pronunciava contro noi elettori democratici le stesse parole che sento, e
pronuncio, tutti i giorni a proposito degli elettori di Trump: «Non
riesco a capire come si possa votare un uomo simile». Io e questo
signore viviamo nello stesso Paese ma in due realtà parallele che non si
incrociano.
Il mio ambiente, certo, è una zona protetta. L’unico
grande dibattito è stato durante le primarie tra i fan di Clinton e i
fan di Sanders. Alcuni amici, soprattutto quelli più giovani, non amano
Hillary ed erano incerti se appoggiarla dopo l’amara sconfitta di
Sanders. «Non me la sento di votare per lei», dicevano. «È noiosa,
troppo establishment, calcolatrice. Non fa sognare un futuro diverso».
Io, che ho votato già in dieci elezioni presidenziali, come molti amici
della mia generazione, ho smesso di sognare già da un po’ e ho accettato
la logica del meno peggio. «Non è una questione di amore, non la devi
sposare o nemmeno andarci a cena. Piaccia o non piaccia, è una donna
molto in gamba, molto capace e considerate l’alternativa!» Ma se il giro
degli amici ci fa vivere in una monocultura politica, i parenti non si
scelgono. Quasi tutti devono gestire rapporti familiari delicati in un
momento di alta tensione. Ed è importante per mantenere un senso di
realtà: i seguaci di Trump non sono tutti dei bruti violenti. Mio
suocero, per esempio, è una persona molto gentile, un ottimo nonno e un
buon marito, ma voterà per Trump. “Anybody but Hillary”, è il suo motto,
mi spiega mia suocera che invece voterà Clinton. Per mantenere la pace
in famiglia ho evitato di parlare direttamente con lui. Ma so da
conversazioni passate che considera il Paese alla deriva, sull’orlo
della rovina. «Non possiamo permetterci altri quattro anni di questo»,
dice. Inutile spiegargli che la disoccupazione sotto Obama è scesa dal
dieci al 4,9 per cento, che l’economia cresce al 2,9 per cento, che lo
stipendio medio è salito l’anno scorso del 5,4 per cento. Non c’è nessun
dato che possa scalfire la sua percezione del disastro. Una delle
metafore preferite della destra americana è l’11 settembre: un pugno di
terroristi ha preso il comando dell’aeroplano del potere, bisogna
annientarli prima che lo facciano schiantare e mandino definitivamente
in pezzi il Paese.
La mia amica Erika è tornata da un viaggio
nello Iowa - dove vivono i suoi genitori - scoraggiata. È uno stato
chiave della sfida elettorale e l’avversione per Hillary è intensissima.
Il padre è un repubblicano moderato ma è un elettore mobile: ha votato
per Obama nel 2008, per Romney nel 2012, e adesso è tentato di scegliere
Trump. «L’immagine degli Usa è caduta troppo in basso – dice - Il
sistema non funziona, forse ci vuole un leader diverso, dirompente, per
farlo ripartire». Il fratello maggiore di Erika non vota Trump ma
detesta Hillary, e resiste ai tentativi della moglie di convincerlo a
votarla, magari tappandosi il naso. Anche il fratello minore che aveva
scelto Sanders - non è sicuro di votare martedì.
Evidentemente, i
tre match televisivi tra Clinton e Trump non sono bastati, anche se non
sono stati dibattiti di grande levatura hanno comunque restituito un
senso di realtà a questa campagna elettorale surreale. Per un’ora e
mezza i due hanno dovuto rispondere a un gran numero di questioni. La
maggioranza degli spettatori, sia repubblicani che democratici, ha
affermato che Clinton ha battuto Trump ogni volta. Eppure, ogni volta,
durante i dibattiti,i miei amici non erano mai sicuri e si scambiavano
messaggi ansiosi. Quando dicevo che andava bene, che la nostra candidata
era stata brava rispondevano: «Ma sei sicuro? Sembra così anche a me.
Ma agli altri?». Questa elezione è stata così bizzarra che non ci
fidiamo più del nostro giudizio.
Dopo la “rivelazione” del
direttore dell’Fbi James Comey — che in realtà non contiene nessuna
informazione — il vantaggio della Clinton si è quasi azzerato. Rischiamo
di eleggere un presidente per fughe di notizie: il candidato che ne
subisce meno vince. Per la maggior parte della stagione elettorale le
chance di Trump sono state tra il quindici e il venti per cento, simile a
quelle della roulette russa, un proiettile nei sei buchi della pistola.
Ora sono salite al trenta per cento, due proiettili nella pistola, c’è
chi arriva a dire addirittura al cinquanta, tre proiettili. «Non dormo
più», mi dice un collega. E ieri mi sono di nuovo svegliato anch’io alle
due di notte.