domenica 6 novembre 2016

Repubblica 6.11.16
I tabù del mondo
Come è difficile dire “grazie” (anche in amore)
È diventato sempre più complicato ringraziare, mentre è più facile invidiare, dimenticare cosa si è ricevuto da genitori o maestri. Per Melanie Klein l’origine dell’invidia è nel rapporto possessivo del bambino col seno materno. Crescere è liberarsi dal sentimento di dipendenza, accedere alla gratitudine
Nella preghiera non si chiede nulla, ma si è riconoscenti del dono dell’essere È il tratto di ogni discorso amoroso: saper vedere la grazia dell’Altro
di Massimo Recalcati

La gratitudine è sempre più un sentimento raro e misconosciuto nel nostro tempo. A prevalere non è la gratitudine ma l’invidia. È questa una coppia concettuale al centro dell’ultimo grande lavoro di Melanie Klein ( Invidia e gratitudine), una dei più grandi psicoanalisti dopo Freud. Se la gratitudine è diventata oggi un tabù del quale quasi vergognarsi, l’invidia sembra invece governare l’avidità acefala della pulsione ipermoderna. Molto più facile invidiare che ringraziare. Sapere dire “grazie!” sembra essere diventato un tabù. Lo diceva Voltaire quando ricordava che è più facile condividere i dolori di un amico che i suoi successi. Ma perché la gratitudine è divenuta così rara? Perché si dimenticano sempre più rapidamente i doni ricevuti? Accade tra genitori e figli, come tra allievi e maestri. Sul posto di lavoro, come nei legami di amicizia. A dominare è il fantasma dell’invidia: distruggere l’oggetto che ci soddisfa perché troppo ricco di vita, mordere la mano che ci nutre. È una constatazione amara che faceva anche Alda Merini quando ricordava che l’invidia si scatena sempre di fronte alla felicità della vita piena dell’altro.
L’invidia nega ogni forma di gratitudine e di memoria: vuole la morte dell’Altro, il suo sbandamento, la sua caduta, la sua corruzione morale. Non a caso Melanie Klein situava l’invidia nel rapporto originario che l’essere umano intrattiene con la madre, il cui prototipo si troverebbe nella relazione del bambino col seno. Nessun seno può, infatti, sottrarsi ai colpi dell’invidia primaria dell’infante. Nemmeno una particolare abbondanza del seno è sufficiente – come ricordava già Freud – a soddisfare pienamente la spinta avida della pulsione orale. Anzi, solitamente il seno più invidiato è quello che si è rivelato più generoso. È proprio il seno più ricco, più vitale, che diviene più facilmente oggetto d’odio. Il soggetto vive infatti la sua vita – la vitalità ricca del seno – come il segno della sua indipendenza e alterità. Dunque come l’esistenza di un oggetto sul quale la pulsione del soggetto non può mai avere il dominio assoluto. Non è infatti il bambino a decidere i tempi della presenza o dell’assenza del seno. Questo genera una condizione di frustrazione che rafforza l’avidità distruttiva della pulsione e la sua invidia. Anche quando la pulsione può godere della presenza del seno, la sua intensità è così insaziabile che rischia di danneggiarlo, di distruggerlo.
Questa attività di distruzione – continua Klein – tende a generare fantasmi di persecuzione: la mano morsa ritorna come mano che vuole uccidere. Più il soggetto scatena la sua distruttività sull’oggetto più l’oggetto diviene persecutorio. Una fortunata serie cinematografica come Alien non parla che di questa trasformazione. In modo più divertente lo fa anche Woody Allen in Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso e non avete mai osato chiedere, dove un enorme seno – oggetto originario dell’amore invidioso – rotola minaccioso da una montagna rischiando di schiacciare il soggetto impegnato in una fuga.
La gratitudine sorge dal timore di avere danneggiato l’oggetto con la propria insaziabile voracità. Per Klein essa può sorgere solo da una trasformazione depressiva dell’angoscia che non è più causata dall’oggetto (dalle angosce persecutorie che la sua ritorsione aggressiva provoca), ma per l’oggetto, per la sua integrità, per la sua esistenza offesa. L’accesso alla gratitudine dipende dai ri-morsi provocati dalla distruttività esercitata verso l’Altro amato, colpevole di non essere di nostra proprietà esclusiva. Essa è un movimento di riparazione che riconosce all’oggetto la funzione vitale che ha avuto per la nostra vita. È l’effetto del riconoscimento del debito simbolico che ci lega all’Altro. La vita che nega l’esistenza separata dell’oggetto è, invece, vita persa nell’odio e nell’invidia distruttiva.
Riconoscere l’assoluta alterità dell’oggetto è una tappa essenziale nel processo di umanizzazione della vita: non posso divorare, assimilare, governare, rendere simile a me, l’alterità dell’Altro. Per il bambino è questo incontro a generare l’esperienza primaria della frustrazione: chi mi soccorre, chi placa l’urgenza dei miei bisogni, non è in mio possesso, non mi appartiene. L’amore non è appropriazione. L’invidia scaturisce da questo sentimento di impotenza e di dipendenza. La sua meta è distruggere l’alterità dell’Altro per ribadire una illusoria indipendenza del soggetto. Diversamente l’accesso alla gratitudine significa il riconoscimento di tutto quello che ho ricevuto dall’Altro. Ringraziare significa riconoscere la grazia dell’Altro, la sua assoluta differenza. In questo senso la forma più alta della gratitudine è quella della preghiera nella quale si ringrazia del dono dell’essere, del dono della nostra presenza nell’essere. Nella gratitudine infatti – come nella forma più radicale della preghiera – non si chiede nulla, ma, semplicemente, si ringrazia di ciò che si è ricevuto. È il tratto essenziale di ogni discorso amoroso: ti sono grato per nessuna delle tue proprietà o qualità, per nessun tuo attributo, ma della tua stessa esistenza. Spinta al fondo la gratitudine è la forma più alta del riconoscimento della vita dell’Altro come vita piena e autonoma, impossibile da raggiungere. Per questa ragione il sentimento della gratitudine sconfina nell’amor fati con il quale Nietzsche definiva il rapporto dell’uomo con il proprio destino: la gratitudine è sempre gratitudine per l’evento stesso del mondo.