Repubblica 6.11.16
Con il trattato sulla “Monarchia” l’autore
della “Divina Commedia” rompe con la tradizione medievale. Ma difende la
natura sacrale dell’impero
A lezione di politica dal professor Dante
di Massimo Cacciari
L’edizione
del Monarchia di Dante, a cura di Paolo Chiesa e Andrea Tabarroni,
recentemente pubblicata come quarto volume della nuova edizione
commentata delle
Opere, coordinata da Enrico Malato, non si
segnala soltanto per la ricchezza di note e apparati, per alcuni
interventi migliorativi del testo-base, per l’ampia introduzione
generale e quelle, essenziali, alle singole parti del volume, ma anche
per la presenza di alcuni importantissimi “documenti” riguardanti la
fortuna dello scritto dantesco, tra i quali il De reprobatione di Guido
Vernani, radicale e filosoficamente nient’affatto sprovveduto attacco al
Monarchia da parte del frate domenicano; il Commentarium al Monarchia
di Cola di Rienzo, testimonianza della sua passione per la gloria di
Roma, di un “culto” che Dante definisce nella sua portata teorica e da
lì, anche proprio attraverso Cola, trapassa nell’Umanesimo; infine il
“volgarizzamento” del
Monarchia, steso dal grande Ficino, alla
fine degli anni ’60 del ‘400, non solo in funzione antirepubblicana, ma
per rivendicare Dante alla pia philosophia e cioè alla “catena aurea”
del platonismo. Interpretazioni o “fra-intendimenti” diversissimi, che
non nascono soltanto dalle posizioni spesso incompatibili dei loro
autori, ma proprio dalla novità e complessità dell’opera di Dante,
soprattutto se letta insieme alla Commedia (come appare necessario fare,
poiché certamente essa viene scritta in anni nei quali Dante è già
tutto immerso, mente e cuore, nella stesura del poema). Della sua novità
Dante è “superbamente” consapevole – e così dello scandalo che essa è
destinata a suscitare. Malgrado le numerose citazioni da Agostino,
riguardanti essenzialmente questioni intorno al metodo dell’esegesi,
Dante non poteva non avvertire l’abisso tra la sua concezione della
civitas hominis, la sua idea di Roma e di Impero, e quelle dell’intera
tradizione patristica e dello stesso “aristotelismo” tomista. Da
remedium o addirittura semplice solacium per l’infermità della nostra
natura vulnerata dal peccato, in Dante l’Impero (e cioè la forma
provvidenzialmente destinata a unire politicamente il genere umano), la
cui idea stessa viene da lui proposta in termini puramente
filosofico-scientifici, esclusivamente per philosophica documenta, è
chiamato a assicurare autentica felicità terrena, a edificare
l’autentico Paradiso terrestre. Da Babilonia, quale era per Agostino,
Roma si trasforma in Roma celeste! Ma nella
Commedia questo Fine
appare davvero ancora garantito dall’opera del solo Impero, nella
razionale autonomia della sua forma? Questo l’enigma, su cui Chiesa e
Tabarroni invitano ancora a riflettere. Virgilio, la prima guida di
Dante, si arresta alla soglia del Paradiso terrestre, non vi entra e
tantomeno potrebbe spiegarne i simboli; stupisce e basta sullo
spettacolo che gli si rivela. È Beatrice a “far entrare” il poeta, e
solo dopo che egli ha bevuto tutto l’amaro calice della confessione e
del pentimento. L’architettura della Commedia, nei nessi costitutivi
rappresentati dalle guide del poeta, segna una profonda discontinuità
con quella del Convivio e del Monarchia. Come spiegarla? Amara delusione
e disincanto dopo il fallimento delle ultime speranze, che ancora
avrebbero animato l’opera politica? Ma il Monarchia è tutto fuorché uno
scritto “militante”; provvidenziale appare a Dante il corso della
storia, ed egli vuol esserne il profeta. In questo schema è inserita la
gloria di Roma, modello di perfetto potere politico, di Impero. Ma è la
forza ideal-eterna di questo disegno che finisce col rendere
contraddittorio il famoso simbolo dei due Soli, Chiesa e Impero,
perfettamente distinti nei rispettivi domini e nelle rispettive
missioni. Se, infatti, il perfetto potere politico è concepibile
soltanto in quanto voluto ab origine dal Signore, in quanto
provvidenziale nel senso più proprio e più forte, la felicitas che esso
promette è necessariamente subordinata a quella ultima, alla beatitudo
celeste.
E sembra essere questa, alla fine, l’indicazione che
emerge dalla Commedia. Dante rompe definitivamente con la teologia
politica patristica e medievale, ma non è affatto anacronisticamente
leggibile nel senso di Marsilio da Padova e della filosofia politica
moderna successiva. L’Impero di Dante non sono i regna, o ormai potremmo
dire gli Stati, che ha in mente Marsilio. Dante segna la grandiosa
soglia tra due epoche – quella di un’idea del Politico che, pur nel
rivendicare la propria razionale autonomia, lotta per non perdere ogni
fondamento sacrale, e quella che ne risolve il significato e la missione
nella immanente potenza delle sue leggi, nella positività del suo
diritto. Per quest’ultima, che il Giustiniano imperatore di Dante trovi
posto, e vera pace, solo in Paradiso diverrà il simbolo di un’epoca per
sempre tramontata.