sabato 5 novembre 2016

Repubblica 5.11.16
I giochi sporchi nel castello dell’Fbi
di Vittorio Zucconi

È AL NUMERO 935 di Pennsylvania Avenue, a soli quattro isolati dalla Casa Bianca, che il filo della possibile vittoria di Donald Trump conduce diritto dentro il castello di quell’Fbi che da centootto anni manovra nell’ombra le manopole segrete della politica, fingendosi neutrale. L’irruzione nella campagna elettorale del direttore James Comey, che ha rivelato a sette giorni dal voto l’esistenza di altre, possibili email sul conto di Hillary Clinton, ha proiettato Trump in una rimonta nei sondaggi che sembrava impossibile. Ha fatto gridare all’invasione di campo i sostenitori dell’ex segretaria di Stato e il presidente Obama, di fronte alla scoperta che i G-Man giocano sporco, e ha illuminato come dentro quel massiccio palazzo nel centro di Washington lavori una cabala spregiudicata e segreta disposta a far di tutto per fermare colei che, nel giudizio di una “gola profonda” dentro lo stesso Fbi, è vista come “l’anticristo”.
Ma se lo shock per la mossa del direttore, repubblicano di antico pelo, sottosegretario alla Giustizia sotto George W. Bush, finanziatore di John Mc-Cain e Mitt Romney e scelto da Obama in un gesto di malintesa conciliazione bipartisan, ha mobilitato gli elettori repubblicani riattizzando la “sindrome anti-Clinton” pur senza nessun indizio nuovo, la storia delle interferenze della massima, e unica, polizia federale nella vita politica americana è antica quanto la sua esistenza. Comey, il direttore che si è schierato — o è stato costretto a farlo sotto minaccia di fughe di notizie da parte della fazione “trumpista” — contro Clinton è nel solco tracciato dal Padre Fondatore e Santo Patrono del Federal bureau of investigation, G. Edgar Hoover.
Non c’è stato partito, non c’è stato presidente, da Woodrow Wilson al prossimo, chiunque sia fra Clinton e Trump, che non abbia dovuto subire, o abbia cercato di usare, la potenza investigativa dell’Fbi contro avversari politici, per influenzare l’opinione pubblica o per difendersi. In un rapporto alternativamente di succubo e incubo, la politica utilizza, e subisce, la colossale burocrazia investigativa del governo, con i suoi 35 mila dipendenti.
Franklin Roosevelt, che detestava Hoover e a ogni elezione minacciava di sostituirlo e poi si doveva rimangiare la minaccia, lo usava per tenere sotto controllo le organizzazioni di estrema destra e sinistra brulicanti negli anni ‘30. Dai G-Men ottenne la distruzione di un oppositore, un predicatore populista con grande seguito, padre Coughlin, utilizzando un classico della disinformatsia del tempo: l’accusa di essere omosessuale. Partita da un uomo, il direttore stesso, sul quale circolavano e continueranno a circolare ipotesi di omosessualità nascosta.
Hoover lavorò segretamente per silurare la campagna elettorale di Truman, appoggiando il repubblicano Dewey, ma servì poi a Truman per contenere il maccartismo, esibito come prova della propria battaglia anticomunista. E quando arrivò il momento dei Kennedy, il dossier privato del boss sui due fratelli si gonfiò di intercettazioni e di ricatti. Hoover aveva le prove di tutte le avventure amorose dei due fratelli, che quindi poteva ricattare, odiandoli odiato. Ma i Kennedy, soprattutto Bob diretto superiore al Ministero della giustizia, lo usava per sorvegliare il movimento per i diritti civili e Martin Luther King.
Nella House of Cards del potere washingtoniano, oscillante fra i due capi opposti di Pennsylvania Avenue, il Campidoglio sede del Parlamento e la Casa Bianca, il castello dell’Fbi sta esattamente, fisicamente nel mezzo, tenendo le chiavi dei segreti più impronuciabili e di tutti. Fu lì che il vicedirettore, Mark Felt, sussurrò dalla propria Gola Profonda gli sporchi trucchi di Richard Nixon ai reporter del Washington Post nel 1973-74, portando alle dimissioni del presidente. Ed è lì che oggi si è formata la “Trumpland”, la terra dei funzionari pro Trump che comunicano in anticipo ai media di estrema destra e agli uomini vicini a Donald come Rudy Giuliani a New York, già avvocato della associazione dei funzionari Fbi, le notizie di indagini su Hillary.
Furono necessari decenni perché la reputazione del Bureau, passato dal mito glorioso della lotta al gangsterismo alla vergogna delle interferenze politiche, si ristabilisse dopo la morte di Hoover nel ’72 e le azioni del direttore in carica, incomprensibilmente piombato sulle elezioni a sette giorni dal voto senza neppure offrire elementi nuovi, torneranno a intossicare l’immagine dell’Fbi, proprio nel momento della massima domanda di sicurezza nazionale. Se la mattina del 20 gennaio 2017, viaggiando nel percorso trionfale fra il giuramento in Campidoglio e l’ingresso alla Casa Bianca, il passeggero della “Bestia”, della-Cadillac presidenziale blindata, sarà Trump, dovrà rivolgere uno sguardo di gratitudine verso quel palazzaccio dell’Fbi e quel direttore che potrà dirgli: io ti ho fatto re.