Repubblica 3.11.16
Fukuyama sceglie Hillary “Con Donald rischio autoritario ma i ceti bassi si sono fatti sentire”
“A lungo i repubblicani non hanno fatto gli interessi della classe operaia bianca che li votava”
È stato il principale teorico dei neo-conservatori: ora voterà democratico. “Il successo di Trump e Sanders segna una svolta”
intervista di Federico Rampini
Francis
Fukuyama, 64 anni, a lungo considerato il più autorevole pensatore
neo-con. Il suo ultimo saggio è “Ordine politico e decadenza” (2014)
NEW
YORK. «Sono ossessionato dalla minaccia Donald Trump, dal rischio che
possa vincere». A dirlo è colui che fu considerato a lungo come un padre
nobile dei neoconservatori. Francis Fukuyama, che coniò la tesi sulla
“fine della storia” dopo la caduta del Muro di Berlino, è uno dei
massimi studiosi della democrazia liberale. Nel 1989 la considerava
trionfante, quasi un “modello unico”. Da allora in una serie di saggi
autorevoli (e autocritici) ha rivisto le sue tesi, perché molta acqua è
passata sotto i ponti: fino a Trump. Fukuyama mi parla al telefono dalla
Stanford University in California, affronta il futuro dell’America e
della destra, le radici dei populismi, gli errori dei democratici.
Dunque lei ha fatto una scelta di campo?
«Voterò
Hillary senza esitazioni. Mi ossessiona l’idea che possa vincere
l’altro. Consulto i sondaggi con una frequenza esagerata. Questa è forse
l’elezione più importante che ricordi nella mia vita, per le
conseguenze potenziali ».
Lei non è un elettore qualunque, è uno scienziato della politica. Le sue analisi, e il suo istinto, cosa le suggeriscono?
«Ho
la sensazione che vincerà lei ma di stretta misura. E i problemi non
fanno che cominciare. La polarizzazione del sistema politico e
dell’elettorato, già aggravata da questa campagna, ci perseguiterà anche
dopo».
Però sull’ultimo numero di Foreign Affairs lei suggerisce
una lettura in parte positiva: in questa campagna i cittadini sono
tornati protagonisti?
«Venivamo da un periodo in cui la politica
sembrava dominata dall’establishment, dalle lobby, dai grandi
finanziatori. Il fenomeno Trump, ed anche il successo di Bernie Sanders,
hanno segnato una svolta. In questo senso la democrazia americana ha
funzionato meglio del previsto, perché gli elettori hanno ripreso il
controllo sulla narrazione dominante, togliendolo alle oligarchie. Per
troppo tempo la classe operaia bianca non era stata rappresentata e
questo era un fallimento della democrazia. Ora chi la rappresenta –
Trump – non fa necessariamente i suoi interessi, però i colletti blu si
appassionano per lui perché sentono di avere ritrovato una voce».
L’effetto-Trump trasforma la destra? I repubblicani sono il vero partito della classe operaia bianca?
«Non
è accaduto tutto di colpo né è tutto risultato di Trump. Certo è una
trasformazione profonda: ai tempi di Franklin Roosevelt il 90% dei
lavoratori bianchi votava democratico. Qualche spostamento cominciò
negli anni ‘60 durante le battaglie dei diritti civili, si accelerò
negli anni ‘80 con Ronald Reagan: pezzi di classe operaia bianca
cominciarono a votare a destra su temi valoriali, patriottismo, diritto
alle armi, opposizione all’aborto. Bill Clinton li recuperò in parte
negli anni ‘90 ma dopo sono andati sempre più a destra. Il problema è
che l’establishment repubblicano tradizionale non faceva i loro
interessi: su libero scambio, tasse e servizi pubblici, faceva
l’interesse dei ricchi e delle grandi imprese. Almeno Trump ha spezzato
quella contraddizione ».
Mentre i democratici erano diventati il partito pro-globalizzazione.
«Da
Bill Clinton in poi, col Nafta e altri trattati di libero scambio, i
democratici si sono spostati al centro. C’è stata una convergenza verso
l’establishment a favore di un’apertura delle frontiere. C’è voluto lo
shock di Sanders per invertire tendenza. Populismo, è l’etichetta che le
élite mettono alle politiche che a loro non piacciono ma che hanno il
sostegno dei cittadini…».
Lei contrappone al capitalismo americano
il modello tedesco, dove i chief executive non hanno cercato la
distruzione sistematica del sindacato.
«La Germania compete sui
mercati aperti, ma ha diseguaglianze meno estreme di quelle americane.
Ha riformato il Welfare per sottrarsi alle rigidità di tipo italiano o
francese. Investe nella formazione professionale. Ha salari più alti del
25% di quelli americani e tuttavia è il terzo esportatore del mondo.
L’America dovrebbe darsi due priorità: un massiccio piano d’investimenti
nelle infrastrutture pubbliche; e una riforma fiscale per recuperare
2.000 miliardi che le multinazionali Usa hanno parcheggiato all’estero».
Due
obiettivi ambiziosi, ma che si ritrovano in parte nelle proposte
elettorali dei due candidati. Nel dopo-elezioni, chi vince riuscirà a
dare una risposta costruttiva alla sfida dei populismi?
«Qui sono
pessimista. La democrazia americana è diventata una “veto-crazia”,
dominata dai veti incrociati e dagli ostruzionismi. Torneranno in forze
le lobby: chiunque tocca la normativa fiscale si scontra con interessi
potenti che hanno conquistato privilegi, esenzioni. Sul rinnovamento
delle infrastrutture: i repubblicani bloccano tutto ciò che
comporterebbe nuove tasse, i democratici hanno voluto regole
ambientaliste che rallentano ogni sorta di cantiere».
Se la più
antica democrazia liberale è ormai veto-crazia, e dopo lo spettacolo
indegno di questa campagna elettorale, i vincitori sono Putin e Xi
Jinping?
«E’ indubbio il fascino di un modello autoritario di tipo
cinese: fa le cose. Questa è la sfida per le democrazie. Quella
americana certo, ma anche il Giappone o l’Italia o l’India. Altrimenti
la tentazione è l’Uomo Forte anche da noi: Trump, appunto. E’ l’idea
semplice e seducente che non occorre riformare le istituzioni, bensì
affidarsi a uno che le aggira».