Repubblica 30.11.16
“Risarcite mio padre deportato dai nazisti” Ma l’Italia si oppone
Il figlio di un partigiano internato in un lager fa causa alla Germania E l’Avvocatura gli si schiera contro
di Carlo Bonini
ROMA.
In una cancelleria della Corte civile di appello di Roma c’è una storia
che racconta cosa siamo diventati. Un Paese dove il cinismo zelante
delle burocrazie, la cavillosità degli argomenti giuridici, arrivano a
concludere che la memoria e il risarcimento dovuti a un deportato nei
campi di sterminio nazisti possano, debbano essere sacrificati alla
“ragione di Stato”, ai rapporti di “amicizia” tra Roma e Berlino. È la
storia di Gualberto Cavallina, classe 1923, emiliano di Berra (Ferrara),
partigiano comunista morto troppo presto (nell’86) per sapere o anche
solo immaginare quale maschera avrebbe assunto la Repubblica italiana
“nata dalla Resistenza”. Anche e innanzitutto la sua. È la storia del
figlio Diego che decide di chiedere conto alla Germania, in un Tribunale
civile del nostro Paese, delle sofferenze inflitte al padre durante la
prigionia nazista. E delle risposte che ne ha sin qui ottenuto.
I
fatti, per come documentati dagli atti del processo e dai documenti
d’epoca della Croce Rossa Internazionale, sono pacifici. Il 25 novembre
1944 Gualberto Cavallina, in quel momento ventunenne vicecomandante
della XIV brigata Garibaldi “Trieste”, viene fatto prigioniero dai
nazisti a Topolovac, tra Capodistria e Buie (attuale Slovenia), dopo una
violenta battaglia. Viene trasferito su un vagone piombato nel campo di
sterminio di Dachau dove, l’11 dicembre di quell’anno, è internato con
il numero di matricola 135441. Ma è troppo giovane e troppo sano per
finire immediatamente nelle camere a gas. Dunque, il 31 dicembre 1944,
lo trasferiscono nel campo di concentramento di Natzweiler (nel
cosiddetto “sottocampo” di Leonberg), dove le SS hanno raccolto migliaia
di deportati italiani per impiegarli nell’industria bellica. Gualberto
ha il numero di matricola 40140 ed è assegnato al lavoro forzato di 12
ore al giorno in una fabbrica che produce aerei da guerra. Le condizioni
di internamento sono disumane e Gualberto sopravvive fino al giorno
della resa della Germania nazista (8 maggio del 1945) solo perché così
vuole il caso. Perché il giorno in cui le SS abbandonano il campo
fucilando tutti gli italiani prigionieri, lui, che è stato chiamato
nell’infermeria, riesce a nascondersi. Una volta libero, raggiunge
l’Emilia, e la sua casa di Berra, solo nel giugno ‘45. Grazie a chi, in
un ospedale da campo americano, lo ha strappato al tifo contratto
durante la prigionia.
L’Italia è repubblicana e Gualberto vive la
sua non lunghissima vita senza rimarginare le ferite della prigionia. Il
suo unico figlio, Diego, nel novembre 2015, dopo la sentenza (la
238/2014) con cui, un anno prima, la Corte costituzionale ha
riconosciuto ai cittadini italiani il diritto di chiedere indennizzo per
i danni subiti dalla violazione dei diritti umani e per crimini di
guerra, ritenendoli “indisponibili” agli accordi post-bellici tra Stati
che li rendono immuni, chiede giustizia e risarcimento per il padre al
Tribunale di Roma. Per principio e non per lucro (la richiesta non
supera poche decine di migliaia di euro). Ma solo per toccare con mano,
con l’avvocato che lo difende, Fabio Anselmo, l’impensabile.
Il
giorno della prima udienza, la Germania deposita una nota verbale in cui
comunica di rinunciare a resistere in giudizio, perché se ne ritiene
immune proprio in forza di quella “consuetudine del Diritto
internazionale” dichiarata illegittima dalla nostra Corte
costituzionale. Il che non è una gran sorpresa. Al contrario della
memoria depositata dall’imprevisto avversario che, a sostegno dello
Stato tedesco, chiede che la richiesta di risarcimento di Cavallina
venga respinta: l’Avvocatura dello Stato. La Repubblica italiana.
Per
conto della Farnesina, l’Avvocatura obietta che la Germania «come
comunicato al ministero degli Esteri Italiano, con diverse note verbali,
non riconosce la giurisdizione del giudice italiano e invoca il
principio consuetudinario della immunità degli Stati dalla
giurisdizione». Di più: che Berlino «ha chiesto alla Farnesina di
assicurare che la tutela di tale posizione giuridica trovi adeguata
considerazione nei procedimenti quali quelli per cui è causa». Un
invito, quello a sostegno dello Stato tedesco, che il governo italiano
potrebbe lasciar cadere. Se non per rispetto e a difesa dei diritti
inviolabili di un proprio cittadino, quanto meno alla luce della
pronuncia della Corte costituzionale. Ma che, al contrario, fa suo
proprio con questo argomento, dove la posta in gioco viene esplicitata
con feroce candore: «La Repubblica federale di Germania ha evidenziato
la necessità che, in vista del mantenimento delle buone relazioni
diplomatiche fra i due Stati, il governo italiano garantisca che la
posizione giuridica assunta dalla Germania trovi considerazione nei
procedimenti ripresi o avviati dinanzi ai giudici italiani contro la
medesima. Sussiste quindi l’interesse del governo italiano a intervenire
nel presente giudizio per la tutela di superiori esigenze di ordine
sovranazionale attinenti al mantenimento delle relazioni
internazionali».
Il 10 ottobre scorso, la sentenza del Tribunale
di Roma respinge la richiesta di Cavallina. Ma non in forza degli
argomenti dell’Avvocatura, che dichiara superati dalla sentenza della
Consulta. Per un altro singolare percorso logico. A quel vicecomandante
della Brigata Garibaldi — argomenta — non spettano né scuse, né denari.
Perché suo figlio, a distanza di 70 anni, non è stato in grado di
dimostrare, né sono sufficienti a farlo i documenti dell’epoca della
Croce Rossa, «in che data e in che circostanze il Cavallina sarebbe
stato liberato e dunque quanto tempo sarebbe rimasto in stato di
prigionia». Come se un campo di concentramento nazista fosse una
democratica galera.
Diego Cavallina ha proposto appello. Un nuovo
giudice dovrà decidere e motivare se la sua storia vada rottamata come
una fastidiosa coda del Novecento. O un ingombro nelle relazioni
internazionali.