mercoledì 30 novembre 2016

La Stampa 30.11.16
Quando il Pci censurava l’idea di guerra civile
di Mattia Feltri

Il primo a inalberarsi fu Giancarlo Pajetta: «No, non si è trattato di una guerra civile, ma di una guerra di popolo, di una guerra meritoria, di una guerra per l’indipendenza». Claudio Pavone, durante un convegno a Brescia, aveva appena espresso la sua teoria sulla triplice guerra combattuta durante la Resistenza: una patriottica contro i tedeschi, una di classe fra rivoluzionari e borghesi, e appunto una civile: italiani contro italiani.
Era il 1985, mancavano ancora sei anni all’uscita della sua opera più celebre («Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza». E per la prima volta in trent’anni uno storico di sinistra e per di più ex partigiano - sebbene estraneo al Pci - aveva osato pronunciare quell’espressione, «guerra civile», abolita su desiderio del più importante leader del comunismo italiano, Palmiro Togliatti, nel tentativo di togliere dignità di contendente agli avversari, cioè i fascisti, e di costruire una reputazione al Pci. Obiettivo raggiunto: a parlare di guerra civile erano rimasti Giorgio Pisanò nei suoi racconti dalla ridotta di Valtellina e i suoi colleghi di reducismo.
Eppure subito dopo il ’45 la definizione era diffusa e per niente sacrilega, usata da Ferruccio Parri, Leo Valiani e persino da Paolo Spriano, storico di spessore molto gradito alle Botteghe Oscure. Poi basta. Ecco perché Pajetta, comunista di granito, quel pomeriggio a Brescia si alza e si scandalizza: intravede il tentativo di mettere sullo stesso piano fascisti e antifascisti, e fa niente se negli anni Pavone spiegherà e rispiegherà che non ci pensava nemmeno, la definizione di «guerra civile» era pura filologia, e secondo lui gli antifascisti avevano ragione e i fascisti torto.
Trascorrono tre anni, e nell’88 Pavone ci riprova in un convegno a Belluno. Lì si scatena l’Unità con Emilio Sarzi Amadè, giornalista e partigiano, che liquida la faccenda con disprezzo: «Torbida suggestione». E subito dopo rincara Filippo Frassati, storico non di primissima fila ma molto fedele al partito, che svilisce quella di Pavone a «pseudo teoria». E quando esce il libro, è il ’91, non va tanto meglio. Anche perché l’anno prima, a Muro di Berlino tirato giù, era stato dedicato alla disputa sul Triangolo della morte in Emilia che aveva ringalluzzito non soltanto l’area del Movimento sociale ma anche politici e studiosi più moderati, esausti della retorica resistenziale.
L’approfondimento di Pavone regge all’urto perché come sempre è molto serio e perché è appoggiato da totem come Vittorio Foa e come Norberto Bobbio, che ha incoraggiato Pavone nel suo lavoro. Insorge l’Anpi, insorge Giorgio Bocca, garbatamente pure Nuto Revelli («Non era un guerra civile, perché i fascisti per noi erano stranieri come e più dei tedeschi») che però finisce col rafforzare la fondamentale dottrina di Pavone sul supplemento d’odio. Ma «guerra civile» è ormai un’espressione sdoganata, accettata da tutti e, oggi lo si è capito, così decisiva per valutare la storia del Pci oltre l’oleografia.