mercoledì 30 novembre 2016

La Stampa 30.11.16
Claudio Pavone
Tre conflitti in una Resistenza
È morto lo storico che liberò dalla retorica la narrazione della lotta antifascista
di Aldo Agosti

Se si pensa al grande vuoto che lascia la sua scomparsa e alla ricchezza e alla varietà degli scritti saggistici e autobiografici che ha pubblicato in questi ultimi anni, si fa fatica a ricordare che Claudio Pavone si è imposto all’attenzione dei grandi media e dei lettori non specialisti ed è diventato una voce di riferimento nel discorso pubblico solo a settant’anni compiuti. Fu nel 1991, quando apparve il suo libro
Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza
.

Eppure la sua biografia non era di quelle ordinarie. Impegnato nella Resistenza clandestina subito dopo l’8 settembre, passò quasi un anno in prigione. Dopo la guerra abbandonò la politica attiva ma non l’impegno intellettuale militante: uomo senza partito ma sempre e coerentemente di sinistra, scrisse assiduamente sulla galassia delle riviste che negli Anni 50 davano voce all’anima inquieta del socialismo italiano. Quando nel 1975 lasciò il ruolo di dirigente dell’Archivio di Stato per l’insegnamento universitario, la sua autorità era già da tempo indiscussa nella comunità degli storici, grazie a un invidiabile curriculum di studioso.
Il postfascismo
I suoi interessi si erano concentrati in due campi: la storia delle istituzioni e dell’amministrazione italiana dopo l’Unità e il tema cruciale della continuità degli apparati dello Stato dal fascismo al postfascismo. Un tema, quest’ultimo, che aveva affrontato, come egli stesso avrebbe riconosciuto, «nel clima della nuova sinistra post-sessantottesca», sentendosi partecipe di un movimento che gli sembrava riaprisse un discorso rimasto sospeso nel 1945 e appena riabbozzato alla fine degli Anni Cinquanta. Su quella continuità Pavone aveva insistito molto, tanto da ammettere anni dopo che nella sua interpretazione era presente «una radicalità non priva di cadute in uno schematismo di tipo classista» e un eccesso di polemica contro quello che si era spinto a chiamare il «bigottismo costituzionale». Ma in realtà quegli scritti toccavano un nervo scoperto nel dibattito culturale e politico, quello della legittimazione che la Repubblica italiana attingeva dalla Resistenza. Una legittimazione che il libro del 1991 tornava sì a ribadire, ma attraverso un percorso ben più complesso e articolato di quello consegnato all’ufficialità delle celebrazioni.
Morale e violenza
Frutto di anni di riflessioni e di ricerche, Una guerra civile toccava – basandosi su un’amplissima gamma di fonti – diversi temi di grande rilievo: dal valore fondante della scelta compiuta l’8 settembre al problema della violenza, al rapporto tra politica e morale. Era una rilettura della storia degli anni 1943-1945 ferma nel sottolineare l’importanza decisiva della lotta di liberazione per la riconquista della dignità nazionale e per una vera rinascita di quella patria di cui era di moda allora, nell’incipiente clima del «revisionismo», far risalire la morte all’8 settembre 1943. Ma era altrettanto attenta a far risaltare differenze e chiaroscuri. Da un lato distingueva fra una «Resistenza in senso forte», la guerra partigiana combattuta soprattutto al Nord da una cospicua minoranza, e una «Resistenza in senso ampio e traslato», che era man mano diventata – anche per chi non vi aveva partecipato o aveva cercato di circoscriverne o manometterne la memoria – l’elemento legittimante del sistema politico repubblicano.
Guerra di indipendenza
Dall’altro interpretava la Resistenza a un tempo come guerra patriottica, combattuta per liberare il paese dall’occupazione tedesca e sentita in sostanza come nuova «guerra d’indipendenza», guerra civile, tra combattenti partigiani ed i fascisti della Repubblica di Salò, e guerra di classe, combattuta, soprattutto dai comunisti al Nord nel nome di una radicale trasformazione sociale.
Queste tre concezioni si intrecciavano spesso anche negli stessi protagonisti individuali o collettivi. Ma il titolo che diede al volume, e che contribuì al suo forte impatto nel dibattito politico e storiografico, finì per portare in primo piano la guerra civile, sdoganando un’interpretazione che era stata fino ad allora monopolio della pubblicistica di destra, anche se era stato ben presente, nel vivo della lotta, sia nella pubblicistica comunista del Nord, sia soprattutto in quella azionista. Franco Venturi aveva parlato addirittura della guerra civile come della sola guerra che per il suo valore etico meritasse di essere combattuta.
Uno standard accettato
Pavone, che avrebbe sempre sottolineato l’importanza anche della seconda parte del titolo del suo libro, ridiede piena dignità al termine proprio nella prospettiva di accentuare la portata morale della scelta antifascista, di sottolinearne l’importanza per il futuro dell’Italia. Ancora nel 1991, quel termine non piacque a tutti, nemmeno all’interno della tradizione azionista: non a Nuto Revelli, per esempio, che pure elogiò il libro come «un lavoro straordinario che ci ha liberati da tutta la retorica che si era depositata sulla resistenza». Con il tempo però il libro di Pavone appare sempre più uno spartiacque storiografico nello studio del biennio 1943-1945 e la sua tesi di fondo – quella della Resistenza come intreccio di tre guerre – non solo non è più seriamente contestata ma è diventata termine di riferimento anche per la comparazione con il movimento di liberazione in altri paesi. Sentiremo la mancanza dei suoi limpidi, mai interrotti ragionamenti sui rapporti tra la moralità, le idee e la cultura da un lato, le istituzioni dall’altro.