Repubblica 30.11.16
“Fu guerra civile” E destra e sinistra non lo perdonarono
Dimostrò per primo da antifascista che la Liberazione divise il Paese ma non accettò mai il revisionismo
di Simonetta Fiori
Quando
usciva dai dibattiti in cui veniva contestato, Claudio Pavone manteneva
uno sguardo sereno, di chi sa di essere nel giusto. Non che fosse
sospettabile di sicumera, al contrario: coltivava il dubbio e le
sfumature, ma una volta scelta la strada la percorreva fino in fondo,
soprattutto se si trattava di sconfinare oltre il mito, di sfidare il
senso comune o le immagini “più rassicuranti” e “levigate” della nostra
stessa radice democratica. Sfide che non ebbero carattere univoco, tanto
da procurargli critiche da fronti opposti. Da parte della sinistra che
fece fatica ad accettare il capolavoro con cui sdoganava la nozione di
guerra civile. E dalle voci più pungenti della retorica
anti-antifascista che, più o meno nella stessa stagione, non gli
perdonarono l’impegno pubblico contro il “neorevisionismo” a uso e
immagine dei nuovi governanti del centro-destra.
Nel 1991, in un
passaggio storico di grandi rivolgimenti in Italia e nel mondo, uscì il
suo libro più famoso, Una guerra civile. Il titolo fu fortemente voluto
dall’editore Giulio Bollati, consapevole del suo tratto dirompente. Si
trattava di un saggio spartiacque, frutto di un lungo lavoro di ricerca,
destinato a modificare non solo il giudizio storiografico ma anche il
senso comune intorno alla Resistenza e al biennio infuocato tra il
settembre del 1943 e l’aprile del 1945. Secondo Pavone non si trattava
solo di guerra di liberazione dai nazifascisti, e di guerra di classe
(comunisti contro padroni), ma anche guerra civile tra italiani di segno
opposto. Qualcuno nella sinistra intellettuale, e nelle file dei
partigiani reduci, gridò allo scandalo. Guerra civile era una categoria
impiegata fino a quel momento solo nei libri del neofascista Giorgio
Pisanò: l’uso da parte di uno storico antifascista, peraltro ex
partigiano, appariva una resa ai repubblichini che per tanti anni
l’avevano sbandierata per legittimare la propria parte.
Fiorirono
dibattiti, sulle pagine culturali e negli incontri pubblici. In dissenso
intervennero le voci critiche di Giulio Einaudi, di Giorgio Bocca, di
Nuto Revelli. Pur apprezzando la ricchezza della documentazione,
mostravano perplessità per una formula che sembrava sminuente. «Non fu
una guerra civile nel senso pieno del termine», obiettò Nuto Revelli,
«perché i fascisti per noi erano degli stranieri, come e forse più dei
tedeschi». Ma se i fascisti non erano considerati neppure italiani, fu
la replica di Pavone, «questo suona come una conferma delle pagine in
cui cerco di chiarire come sia tipico della guerra civile l’atto di
privare l’avversario della nazionalità ». In difesa dello studioso si
schierano Vittorio Foa e Norberto Bobbio, che avevano partecipato
attivamente alla progettazione del lavoro. Pavone sapeva bene che «la
memoria collettiva tende a seppellire tutto ciò che la angustia». E la
guerra fratricida combattuta in Italia tra il 1943 e il 1945 era un
grande peso a rimuovere. Si faceva fatica ad accettare che anche la
Repubblica Sociale fosse storia nostra, storia del nostro paese. E che
gli odiati fascisti di Salò fossero italiani «e non fantasmi partoriti
dall’inferno».
Le vivaci polemiche rischiarono di oscurare la
grandezza dell’opera, racchiusa nel sottotitolo Saggio storico sulla
moralità della Resistenza. Proprio «per non annullare la memoria della
guerra di liberazione nella oleografia rifiutata dalle generazioni più
giovani», Pavone spostò la sua lente storiografica sugli uomini e sulle
donne della Resistenza, sulle loro “convinzioni morali”, sulle
“strutture culturali”, sulle “pulsioni emotive”, sui “dubbi e le
passioni” suscitate dalla crisi dell’8 settembre del 1943, quando le
istituzioni italiane parvero dileguarsi. Il terreno scelto da Pavone era
quello della “moralità”, ossia il terreno in cui si incontrano e si
scontrano politica e morale. «Si trattava di calare in contingenze
storiche alcuni grandi problemi morali. E reciprocamente volevo mostrare
come le stesse contingenze storiche rinviassero a quei problemi»,
scrisse lo studioso nella premessa al volume. Il risultato fu uno
straordinario affresco in cui per la prima volta prendeva la parola una
moltitudine di giovani uomini travolti dalla Storia. Per loro, per chi
aveva scritto «è ben triste vivere senza far sapere», lo studioso aveva
lavorato alla sua opera principale.
Moralità è anche la cifra che
più rispecchia la personalità intellettuale di Pavone, molto critico
verso i disinvolti riscrittori della storia repubblicana che negli anni
Novanta si misero al servizio dei nuovi governanti. Comprendere le
ragioni dei ragazzi di Salò non significava considerarli sullo stesso
piano dei partigiani. E capire la complessità delle nostre origini
repubblicane non significava svilire le fondamenta antifasciste.
Intellettuale rigoroso, fu severo verso quegli opinion maker che usavano
la storia come strumento di lotta politica contingente: hanno tutto il
diritto di farlo, aggiungeva Pavone, ma nel momento in cui lo fanno non
operano da storici. La critica non gli fu perdonata. Qualche anno dopo,
in occasione della visita del presidente Ciampi a Cefalonia in ricordo
dell’eccidio nazista, Ernesto Galli della Loggia puntò l’indice contro
Una guerra civile, lamentando che in 800 pagine non una riga era
dedicata alla strage. Un attacco insensato (lo studioso aveva parlato di
Cefalonia in altre sedi), lontano dallo stile pacato mostrato da Pavone
nella sua vita privata e pubblica.
Pur essendo al centro di
diverse polemiche, Pavone cercava sempre di evitare rotture personali.
Come se la sua moralità implicasse il rispetto dell’altro, anche nel
dissenso.