Repubblica 30.11.16
Laico, rigoroso, “azionista postumo” è morto il giorno prima dei 96 anni
Claudio Pavone
Lo storico che riscoprì la moralità della Liberazione
di Guido Crainz
CLAUDIO PAVONE (1920-2016)
I funerali di Claudio Pavone si svolgeranno a Roma domani alle 17 nella Sala della Protomoteca del Campidoglio
Si
definiva “azionista postumo”, Claudio Pavone, morto ieri il giorno
prima di compiere 96 anni. Ed era molto vero: non aveva fatto parte del
Partito d’Azione (partecipò alla Resistenza prima a Roma, con il Partito
socialista, e poi – dopo alcuni mesi di carcere – a Milano, in un
piccolo raggruppamento di sinistra) ma ne condivise per tutta la vita il
rigore laico e l’impegno civile. Furono gli elementi costitutivi di uno
storico, e di un maestro, discreto e insostituibile, lontano dalle
grandi ribalte dei media e estraneo alle baronie accademiche. Ricco di
sensibilità e ironia, gentilezza e umanità, profondità e leggerezza al
tempo stesso,
che traspaiono sin dalle “memorie del 1943-45”, La mia Resistenza (Donzelli, 2015).
Prima
di scegliere l’insegnamento universitario lavorò a lungo come
archivista nell’amministrazione dello Stato e vi lasciò segni non
effimeri: a partire dalla Guida generale degli Archivi di Stato
italiani, alla cui ideazione e realizzazione diede un contributo
decisivo. Mi sono chiesto a lungo, ha scritto, se e come la moralità, le
idee e la cultura riescano a lasciare il loro segno nelle istituzioni:
la mia «vena di moralismo vagamente anarchico», ha aggiunto, mi spingeva
a dubitarne ma proprio il mio lavoro di storico e di archivista mi ha
talora convinto che questa possibilità esiste. Vi è qui una chiave per
comprendere molti suoi tratti: l’intreccio profondo fra impegno
intellettuale e passione civile, ad esempio, o una attenzione alle fonti
– non solo a quelle archivistiche – che è rigorosissima ma non ha nulla
di erudito. Pavone le viveva, al contrario, come strumento essenziale
per indagare anche gli aspetti più insondabili dell’individuo e delle
vicende collettive. E poteva farlo proprio perché muoveva da una
grandissima apertura e ricchezza culturale: è un vero scrigno la sua
Prima lezione di storia contemporanea (Laterza, 2007: e presso lo stesso
editore ha pubblicato di recente Aria di Russia, appunti di un viaggio
del 1963).
La passione onnivora con cui guardava alle fonti è
limpidamente testimoniata dal suo lavoro più importante, uno dei grandi
libri del Novecento italiano: Una guerra civile. Saggio storico sulla
moralità nella Resistenza (Bollati Boringhieri, 1991). Una tappa
fondamentale nel suo percorso di ricerca, che si è allargato di continuo
ai grandi nodi della storia contemporanea ma ha avuto costantemente al
centro la stagione della Resistenza e il suo rapporto con la nascita
della Repubblica. I suoi contributi più stimolanti su questo terreno
sono venuti in coincidenza con tre fasi di rinnovamento culturale del
Paese, o di rifondazione dopo il crollo delle certezze. Così fu nel post
1956, in un clima che Pavone visse anche nell’esperienza di
Passato
e presente, la rivista animata da Antonio Giolitti e Luciano Cafagna,
Alessandro Pizzorno e Alberto Caracciolo. In quelle pagine pubblicò nel
1959 Le idee della Resistenza. Antifascisti e fascisti davanti alla
tradizione del Risorgimento: una critica puntuale della lettura
“ufficiale”, o dello stereotipo, della Resistenza come “Secondo
Risorgimento” e al tempo stesso una rivisitazione penetrante di entrambe
le fasi, e degli usi politici che ne erano stati fatti.
Ancora un
suo denso saggio troviamo poi al centro del dibattito successivo al
‘68, un movimento cui aveva guardato con attenzione partecipe e con
speranza (vide allora «riaprirsi il campo del possibile», come scrisse).
Fra i temi che quei fermenti avevano messo all’ordine del giorno vi era
anche il contrasto fra le speranze di trasformazione del 1943-45 e
l’“Italia reale” che ne era poi nata, presto immersa nel clima teso
della guerra fredda. Riflettendo su quel nodo in sintonia con Guido
Quazza, Pavone mise a fuoco una questione essenziale: la “continuità
dello Stato” nel passaggio dal fascismo alla Repubblica come corposo
freno a un rinnovamento reale. Non una continuità assoluta, ma un tenace
permanere di apparati, di uomini e di culture da cui sarebbero venuti
condizionamenti pesanti. Nei suoi saggi su questi temi — raccolti poi in
Alle origini della Repubblica (Bollati Boringhieri, 1995) — trovavano
risposte e al tempo stesso ulteriori stimoli le ansie di comprensione
della realtà italiana che il ‘68 aveva alimentato, e venivano superate
sia le rimozioni che le semplificazioni ideologiche. Era solo la
premessa di Una guerra civile, frutto di una riflessione che portò a
fondo anche in reazione al più generale disorientamento e “perdita di
memoria” degli anni Ottanta: comprendeva bene la necessità e l’urgenza
di contrapporre a quel clima risposte di alto profilo.
È
impossibile soffermarsi su quel grandissimo libro, capace di
scandagliare i differenti modi di “essere italiani” che erano
sedimentati in una vicenda lunga. Capace di cogliere nella crisi del
1943-45 non solo il delinearsi di diverse e opposte opzioni ideologiche e
politiche ma anche «fratture, risentimenti, concezioni antagonistiche
dell’uomo italiano e della nazione italiana di più ampio respiro».
Capace di porre al centro una intensa riflessione sul rapporto fra
scelte individuali e vicende collettive. E di far comprendere i diversi
percorsi attraverso cui prese di nuovo corpo e significato nella
Resistenza l’idea di patria. In quel crocevia Pavone vedeva il
coesistere e l’intrecciarsi di “tre guerre”, mosse da differenti
motivazioni ed aspirazioni: la guerra di liberazione nazionale contro
l’occupazione nazista, certo, ma anche una “guerra di classe” intrisa di
aspirazioni ad un radicale rivolgimento sociale, e al tempo stesso una
guerra civile fra fascisti e antifascisti, epilogo dello scontro aperto
nel 1921-22 dalle violenze squadristiche. Proprio quest’ultima chiave di
lettura suscitò anche reazioni aspre: non solo e non tanto, forse,
perché la categoria di “guerra civile” era stata usata strumentalmente
dalla pubblicistica neofascista quanto perché in questo modo il libro
poneva alle origini della Repubblica non un mito rassicurante ma un irto
groviglio di questioni, e impediva al tempo stesso di rimuovere la
corposa presenza del fascismo nella storia nazionale. Costringeva a
riflettere, anche, sul nesso decisivo fra etica e politica: quel libro è
davvero un «saggio storico sulla moralità della Resistenza » ma al
tempo stesso, come osservava Nicola Gallerano, «una testimonianza dello
spessore morale dello storico che lo ha scritto».