Corriere 30.11.16
Pavone , l’etica dello storico
Fiero antifascista, per primo a sinistra definì la Resistenza una «guerra civile»
di Antonio Carioti
Per
lungo tempo l’uso del termine «guerra civile» per definire la lotta
partigiana rimase interdetto tra gli studiosi di orientamento
antifascista. Fino alle soglie degli anni Novanta, solo i nostalgici di
Salò adoperavano quell’espressione, che pure corrispondeva a un aspetto
centrale degli eventi tra il settembre 1943 e l’aprile 1945. Se il tabù
ideologico è stato superato da tempo, si deve principalmente a Claudio
Pavone, che si è spento a Roma dopo una vita dedicata con grande impegno
agli studi storici. Fu lui, che proprio oggi avrebbe compiuto 96 anni, a
intitolare Una guerra civile il suo fondamentale saggio sulla lotta di
Liberazione uscito nel 1991 da Bollati Boringhieri.
Nessuno poteva
rimproverare a Pavone una qualche indulgenza verso il fascismo, in
primo luogo per la sua attiva partecipazione alla Resistenza. Nato a
Roma nel 1920 in una famiglia borghese (suo padre era avvocato di
Confindustria), si era unito ai partigiani nell’autunno del 1943 e aveva
conosciuto il carcere, prima nella capitale e poi a Castelfranco
Emilia. Riottenuta la libertà, si era trasferito a Milano, dove aveva
proseguito la lotta correndo notevoli rischi, come aveva raccontato nel
libro La mia Resistenza (Donzelli, 2015), fino alla Liberazione. In
seguito era stato molto vicino a una delle figure più rappresentative
dell’azionismo e poi della sinistra socialista, Vittorio Foa. Non aveva
invece subito il fascino del Pci togliattiano, come testimonia il diario
del suo viaggio in Urss nel 1963, pubblicato pochi mesi fa da Laterza
con il titolo Aria di Russia , in cui lo storico romano constatava a più
riprese come a Mosca gli studiosi seri fossero ben più avanti dei
comunisti italiani nella critica alla tirannia staliniana e ai suoi
strascichi.
Se Pavone aveva deciso di adottare nel suo lavoro
l’espressione «guerra civile», non era certo per fare concessioni alle
camicie nere e ai loro eredi, nei cui riguardi la sua condanna rimaneva
fermissima, ma perché la riteneva adeguata alla comprensione delle
caratteristiche peculiari che la Resistenza — fenomeno di portata
europea, presente in quasi tutti i territori occupati dal Terzo Reich —
aveva assunto in un Paese dove il fascismo era nato, si era imposto e
aveva governato per vent’anni, trovando ancora gente disposta a seguirlo
e a combattere in suo nome, con ben scarse prospettive di vittoria,
dopo la completa bancarotta del regime il 25 luglio e il disastroso
armistizio dell’8 settembre 1943.
Non tutti avevano accettato
quella svolta interpretativa: suoi ex compagni di lotta, come Nuto
Revelli e Giorgio Bocca, avevano contestato le tesi di Pavone, ma spesso
con argomenti che confermavano come essi stessi avessero vissuto
l’impegno partigiano coltivando una tipica mentalità da guerra civile,
tendente a escludere il nemico dal consorzio nazionale.
Tra gli
studiosi invece la sua impostazione era stata accettata, anche perché il
libro indicava altre dimensioni della Resistenza oltre a quella che gli
dava il titolo: all’interno dell’esperienza partigiana individuava
anche una guerra di Liberazione, contro gli occupanti tedeschi, e una
guerra di classe, protesa al superamento per via rivoluzionaria della
struttura economica capitalista.
Era insomma, Una guerra civile ,
un’opera di finezza e complessità straordinarie, che si confrontava
senza timori anche con le fonti e le testimonianze di parte fascista,
pur sottolineando sempre con forza che la repubblica di Mussolini non
aveva «nulla di nuovo da offrire o da far sperare», mentre la
Resistenza, pur con i suoi limiti, le sue ingenuità e le sue divisioni
interne, aveva saputo «caricarsi di speranze e di progetti per il
futuro».
Del resto Pavone era assai rigoroso nel respingere ogni
appello in favore della cosiddetta «memoria condivisa», che considerava
un «concetto senza senso». Proprio perché lo scontro tra partigiani e
combattenti della Rsi aveva avuto una portata ideale di enorme rilievo,
non si poteva metterci una pietra sopra, con il rischio di banalizzare
non soltanto la Resistenza, ma anche il fascismo e il suo rilievo
storico.
Docente di Storia contemporanea all’Università di Pisa,
Pavone era giunto tardi all’insegnamento universitario, poiché fino al
1974 aveva lavorato come archivista, curando in quel periodo, assieme a
Piero D’Angiolini, una utilissima Guida generale agli archivi di Stato
italiani in tre volumi. Ma già allora si era dedicato a lavori di
ricostruzione storica, come i saggi degli anni Cinquanta confluiti nel
volume Gli inizi di Roma capitale (Bollati Boringhieri, 2011). E la
lunga esperienza di archivista aveva indubbiamente stimolato il suo
interesse per la continuità dello Stato, da cui erano scaturiti diversi
scritti poi raccolti sotto il titolo Alle origini della Repubblica
(Bollati Boringhieri, 1995).
Pavone riteneva che l’azione sommersa
degli apparati burocratici avesse traghettato dal regime mussoliniano
all’Italia postbellica «veleni autoritari» nefasti, capaci «di
infiacchire gli slanci politici innovatori e di compromettere i
tentativi di democrazia». Si era anzi convinto che l’atteggiamento
severo assunto dai vincitori verso la Germania avesse avuto il risvolto
positivo di consentire ai tedeschi una rottura più netta con il passato
nazionalsocialista, rispetto alla situazione compromissoria che si era
venuta a creare in Italia, di cui ravvisava effetti dannosi anche nel
presente, con la persistenza di tratti negativi del nostro carattere
nazionale, come «il conformismo, la mancanza di senso dello Stato, il
primato assoluto dell’interesse privato».
Ciò nonostante, non
voleva rassegnarsi all’idea «che vi siano campi dell’agire umano nei
quali non è possibile si manifestino valori positivi». Pur fra molti
dubbi, era convinto che le istituzioni statali non fossero soltanto il
suggello del «volto demoniaco del potere», riteneva che anche al loro
interno fosse possibile praticare una forma elevata di senso etico. Era
anche questa del resto la molla che lo aveva spinto da giovane a
prendere le armi contro i tedeschi e i fascisti: Pavone vedeva nella
Resistenza l’aspirazione a superare, «innanzitutto nelle coscienze», il
divario abissale «tra moralità pubblica e moralità privata» che affligge
da secoli il nostro Paese. Un progetto rimasto irrealizzato e forse per
certi aspetti utopistico ma che a suo avviso poteva continuare a
svolgere «una funzione civile» anche ai nostri giorni.