Repubblica 30.11.16
Cuba e Fidel la muta processione dell’addio
L’Avana, con Miriam in piazza: l’orgoglio e un vago sollievo
di Bernardo Valli
L’AVANA
NON l’ha mai amato, né detestato: per mezzo secolo ne ha sentito la
presenza. Invadente, rassicurante, ossessiva. Rivoluzionario giusto o
tiranno? Questo l’inconscio dilemma per Miriam che adesso, in piazza
della Rivoluzione, trattiene a stento i singhiozzi davanti alle ceneri
di Fidel, che sono in attesa di essere portate e sepolte a Santiago
accanto a quelle di José Martí, eroe delle guerre di indipendenza.
Il
puntuale colpo a salve di un cannone ricorda il lutto nazionale, e
anche che la rivoluzione è orfana. E si sa che le lacrime degli orfani
possono nascondere segreti inconfessabili. Il senso di vuoto, in cui lo
smarrimento e il dolore possono essere venati di un sollievo più o meno
vago, lo si avverte nella città più riservata del solito. Quasi
silenziosa. Ieri alle due del pomeriggio i negozi hanno abbassato le
saracinesche, i mercati chiuso i loro banchi ed è iniziata una
processione muta verso la Plaza de la Revolución.
SEGUE ALLE PAGINE 14 E 15
AVOLTE
hai l’impressione di poter palpare i sentimenti, che cambiano o
svaniscono come i razzi in un fuoco d’artificio. Fidel Castro è rimasto
al potere più di qualsiasi altro nella nostra epoca contemporanea. Ha
resistito tanto a lungo da consentire undici mandati presidenziali a
Washington, tutti ostili, con il fiato sul collo della piccola
fastidiosa isola proprio lì, a portata di mano. Come Fidel sia riuscito a
morire nel suo letto è uno dei grandi romanzi politici della nostra
epoca. A partire dalla dottrina Monroe, che adeguava la stagione
politica nel continente agli umori della Casa Bianca, pochi caudilli
latinoamericani c’erano riusciti. Fidel non era un caudillo. Era
qualcosa d’altro. Il suo coraggio, la sua abilità, la sua ambiguità gli
hanno consentito di vivere fino a novant’anni. I cubani ne sono fieri,
ma anche stupiti. Forse esausti. I padri troppo longevi non sempre sono i
più amati. Gli esuli, e nemici, di Miami esultano. Ma hanno torto. Non
sono loro che hanno vinto. La morte naturale non è inflitta da una
guerra.
Nella città quieta di questi giorni c’è anche, davanti ai
municipios dei quartieri, qualche fila di uomini, donne, ragazzi in
attesa di firmare una dichiarazione in cui confermano fedeltà alla
rivoluzione, che “continua” dopo Fidel. È un atto di fede e una
procedura del regime. Ma ritorno a Miriam, che ha vissuto i
cinquant’anni di Fidel nella sua cucina: combattendo con le razioni di
pane quotidiane; vivendo con il timore che i figli o il marito finissero
alla Cabana, la prigione ben in vista dal Malecon, il lungomare
dell’Avana; o in preda a vampate di emozioni quando lui diceva per ore
che la rivoluzione apparteneva al popolo, dunque anche a lei, Miriam,
che adesso trattiene a stento i singhiozzi. Miriam si è sentita via via,
a suo modo, militante o vittima. Adesso è una reduce. Desolata o
liberata non lo sa ancora. Il vuoto che si è creato da quando Fidel è
soltanto un pugno di cenere l’intimorisce. Non sa se avere paura o
rallegrarsi. Dunque piange.
Da oggi Fidel Castro ripercorrerà a
ritroso l’ìtinerario seguito in tre anni di guerriglia dalla sua
Rivoluzione entrata trionfante all’Avana l’8 gennaio del ’59. Camilo
Cienfuegos e Guevara sono morti da un pezzo. La rivoluzione cubana è
stata popolare nel mondo, ricco e povero, industriale e rurale,
democratico o autoritario, anche perché i tre volti di Fidel, di Camilo e
del “Che” erano belli, erano giovani. Erano sexy. Nell’epoca della
pubblicità, una rivoluzione con motivazioni antiche ha offerto con quei
tre personaggi un’immagine glamour. Ormai appassita, ma dietro la quale
si nascondono sempre molti misteri. I comandanti che guidarono i
barbudos, sia Cienfuegos sia Guevara, dalla Sierra Maestra fino
all’Avana, occupano gli altari del regime e ricevono i giusti omaggi
come eroi della Revolución. Ma quali fossero i reali rapporti tra loro e
Fidel, il líder maximo sopravvissto, non lo si sa con certezza. Come
non si conosce con certezza quando e come Fidel sia approdato al
comunismo. Tra gli osservatori, ostili o favorevoli al castrismo, sono
esistite a lungo due scuole di pensiero. Una sosteneva, e sostiene, che
le idee marxiste stessero già maturando in lui quando era un giovane
borghese, destinato alla professione d’avvocato, o poco dopo. Un’altra
che l’ostilità degli Stati Uniti e il conseguente ricorso all’Unione
Sovietica furono decisivi. Ha scarsa importanza quel che Fidel ha
dichiarato in proposito. Nel poeta nazionale José Martì, accanto al
quale sarà sepolto il 4 dicembre a Santiago, lui ammirava la capacità di
nascondere il proprio pensiero, e anche tutto quello che avrebbe potuto
nuocere alla sua lotta. Pure Fidel avvolgeva con un velo di segretezza e
ambiguità il suo personaggio politico e privato.
C’è un “giallo”
in tutte le rivoluzioni. Pochi giorni dopo lo sbarco nella Baia dei
Porci, nella primavera del ’61, ho visitato a Camaguey, a Santiago e
all’Avana numerose caserme dell’ejercito rebelde per scoprire se i
militari, come era voce corrente, venivano iniziati al marxismo.
Sull’onda della vittoria sui contro rivoluzionari addestrati e inviati
dalla Cia, con il riluttante assenso di J.F. Kennedy, Cuba si era
proclamata repubblica socialista. C’era stata una grande parata, con le
miliziane che sfilavano con il mitra e le camicette un po’ scollate.
Un’atmosfera solenne e al tempo stesso leggera. Gioiosa. Senza che
nessuno menzionasse le fucilazioni sbrigative degli uomini del dittatore
Batista e dei controrivoluzionarti del fallito sbarco della Baia dei
Porci, ma anche dei barbudos dissidenti, contrari alla svolta comunista
in corso. Di quest’ultima, il collega francese Max Clos e io, non
trovammo traccia nelle caserme visitate. Max fu più accorto di me perché
avvertì egualmente la conversione del regime. Non furono i comunisti a
guidarla, ma gli stessi castristi a promuoverla, assorbendo di fatto il
partito filo sovietico. È stato detto che Fidel sposò Marx e
Machiavelli. Nonostante la sempre più grande dipendenza dall’Unione
Sovietica, anche per sopperire ai danni provocati dall’embargo
americano, egli continuò a proclamare la sovranità di Cuba. Più doveva a
Mosca la sopravvivenza economica e più enfatizzava la sua orgogliosa
autonomia. Nel ’62, durante la crisi con gli Stati Uniti, provocata dai
missili nucleari sovietici, Castro aggravò il rischio di un conflitto
atomico, secondo la testimonianza di Nikita Krusciov, dichiarandosi
contrario al ritiro delle testate che Kennedy esigeva. E nel ’68 approvò
l’invasione sovietica della Cecoclovacchia.
Riprendo questi
episodi, già evocati dopo la sua morte, per trovare un equilibrio nel
disegnare il personaggio. Le sue ceneri stanno per essere portate lungo i
luoghi della guerriglia, fino a Santiago, dove nel 1953, arrestato dopo
il fallito attacco alla caserma Moncada, dichiarò ai poliziotti la
famosa frase «la Storia mi assolverà».Il corteo funebre, che
attraverserà l’intera isola, conforterà l’immagine del leader coraggioso
che, in un’urna, ritorna per l’ultima volta dove ha combattuto. Tra la
gente cui ha dato la terra, l’uguaglianza sociale, perlomeno formale, e i
diritti all’assistenza sanitaria e all’educazione.
Molti
intellettuali, e con loro numerosi cronisti, sono stati sedotti da
Fidel. Herbert Matthews, del New York Times, che lo incontrò quando era
alla macchia, sulla Sierra Maestra, descrisse «una personalità
schiacciante», e un capo adorato dai suoi uomini. Nel ’61, al momento
della vittoria sui controrivoluzionarui sbarcati nella Baia dei porci,
trattenni a stento la mia ammirazione. Nel ’65, quando capitai a Cuba
mentre era in corso la campagna contro gli omosessuali e i dissidenti,
non nascosi la mia delusione. Nei successivi cinquant’anni l’affabile,
burbero colosso, oratore infaticabile e politico audace, per tenere in
piedi la sua rivoluzione non si è dimostrato rispettoso dei diritti
dell’uomo, ha consensito di alimentare traffici di qualsisi genere per
riempire le vuote casse dello Stato, e non si è risparmiato
nell’organizzare reti poliziesche, e ampie repressioni contro avversari e
supposti avversari. Se ha dotato l’isola di un’assistenza sanitaria e
vinto l’analfabetismo, non ne ha fatto decollare l’attività economica.
Rimasta stagnante. Al di là degli evidenti fallimenti, il successo
risiede nell’avere resistito alla superpotenza e nell’avere seguito, con
tutti i mezzi, quella che riteneva la linea della sua Rivoluzione,
indipendentemente dai risultati. Osservando la compunzione dei cubani in
lutto ho adesso l’impressione di assistere alla scomparsa di un leader
che ha basato la gestione del potere sull’orgoglio, suo e della sua
gente.