Corriere 30.11.16
Faida in Palestina Dahlan dall’esilio insidia Abu Mazen
Resa dei conti al congresso del Fatahdi Davide Frattini
GERUSALEMME
Lungo le quattro rampe che fanno da sentiero in salita i curatori del
mito hanno raccolto la keffiah bianca e nera, il revolver nella fondina
di cuoio, i diari con le annotazioni fitte. Al costo di 7 milioni di
dollari, il museo celebra Yasser Arafat e quasi dimentica il suo
successore: Abu Mazen appare in qualche foto, quelle in cui cancellarlo
si sarebbe notato troppo. Il palazzo inaugurato poche settimane fa
commemora il leader scomparso nel 2004 e l’unità palestinese che se n’è
andata con lui.
L’edificio è stato costruito dentro il recinto
della Muqata, dove Arafat ha vissuto gli ultimi 34 mesi circondato dalle
macerie e dai carrarmati israeliani, «il campo della sua battaglia
finale» come racconta la guida. Dietro queste stesse mura, Abu Mazen
combatte da ieri la sua di battaglia finale. Per la prima volta in sette
anni ha deciso di convocare il congresso del Fatah: il partito fondato
da Arafat e che ha dominato la politica palestinese è sempre più
agitato, diviso tra vecchia e nuova guardia, tra chi considera Abu Mazen
il garante della continuità e chi lo accusa di essere diventato un
dittatore. Che ha cancellato a ripetizione le elezioni e che a lungo ha
rinviato anche questo confronto con gli oppositori interni.
I
1.400 delegati lo hanno già rivotato presidente del partito, un gesto
scontato di rispetto per poter affrontare nei prossimi quattro giorni le
sfide per il potere con l’elezione del comitato centrale.
Dall’assemblea dovrebbe uscire anche il nome di un vicepresidente, un
numero due pronto a prendere il controllo se Abu Mazen — 81 anni, gran
fumatore nonostante i problemi di cuore — dovesse cedere. Perché la
legge prevederebbe che l’incarico passi ad Aziz Dwaik, il presidente del
parlamento: sta in un carcere israeliano e soprattutto è un capo di
Hamas. I fondamentalisti spadroneggiano nella Striscia Gaza e hanno
preferito mandare a Ramallah i cimeli da esibire nel museo (come la
medaglia per il Nobel per la pace ricevuta da Arafat) che lasciarci
andare i rappresentanti di Fatah.
All’assemblea non è stato
invitato Mohammed Dahlan, che la segue a oltre duemila chilometri di
distanza, dall’esilio milionario negli Emirati Arabi. Il fisico asciutto
di chi si allena 90 minuti ogni giorno, l’ex uomo forte dei servizi
segreti non può ritornare in Cisgiordania da 5 anni. Abu Mazen lo accusa
di tradimento, di complottare per deporlo, a Ramallah rischierebbe
l’arresto.
Eppure i Paesi del Golfo che lo ospitano e le altre
nazioni arabe hanno puntato su di lui. «Lo so che Abu Mazen è
spaventato, ha paura che Mohammed Dahlan ritorni», ha detto parlando di
sé in terza persona al quotidiano New York Times . «Perché spaventato?
Perché sa quello che ha combinato in questi dieci anni e lui sa che io
so».
Ripete di non voler diventare presidente, ammette di voler
avere un ruolo nel dopo Abu Mazen, anche se significa lasciare il lusso
di Abu Dhabi e i tuffi all’alba nella piscina della sua villa. Una di
quelle vasche infinity dove l’acqua tracima, all’apparenza senza bordo:
così si è comportato il raìs secondo Dahlan, ha oltrepassato i limiti,
«ha trasformato quel che resta dell’Autorità in una macchina per il
controllo, ci sono segnali che stiamo diventando come il regime di
Bashar Assad o quello di Saddam Hussein».
I leader arabi sanno che
Dahlan non è popolare in Cisgiordania e propongono una condivisione del
potere: il presidente simbolo potrebbe essere Marwan Barghouti, che sta
scontando cinque ergastoli con l’accusa di essere coinvolto negli
omicidi di cinque israeliani, ed è considerato dai palestinesi l’erede
di Yasser Arafat.