mercoledì 2 novembre 2016

Repubblica 2.11.16
Il deficit, le virgole e i conti in ordine
di Massimo Giannini

LE NOSTRE vite per uno zero virgola. Posta in questi termini, la contesa tra Roma e Bruxelles sui costi della ricostruzione e della messa in sicurezza del nostro patrimonio abitativo e culturale è più che surreale. È penosa. L’aritmetica rivendica il suo primato sulla politica.
LA CONTABILITÀ si pretende superiore alla solidarietà. Anche quando in gioco non ci sono solo le cifre del deficit, ma i numeri delle vittime di un tremendo terremoto che tra il 24 agosto e il 30 ottobre ha ucciso quasi 300 persone, devastato 200 Comuni e distrutto i tesori d’arte di cui si è nutrita la cultura occidentale.
Renzi, addolorato, alza la voce: «Se dopo quello che è successo qualcuno mi parla ancora di regole europee, significa che ha perso la testa». La Commissione europea, “delusa”, risponde a tono: la lettera con la quale il governo italiano indica le due emergenze sisma-migranti come “circostanze eccezionali” che giustificano l’aumento del disavanzo strutturale dello 0,4% (invece della promessa riduzione dello 0,6%), è “poco costruttiva”. Se ci soffermassimo agli aspetti formali, questo sì, sembrerebbe uno “scontro di civiltà”. E tutti, elettori ed eletti, dovrebbero schierarsi compatti, senza se e senza ma, dalla parte della democrazia e contro la “tecnocrazia”. Per solide ragioni etiche (il presente e il futuro dei nostri figli) e non per le solite mozioni retoriche (una vacua “concordia nazionale”, che significa tutto e niente).
Ma in questa triste vicenda ci sono questioni sostanziali sulle quali non si può sorvolare, sia pure sull’onda del dolore che suscitano i volti sfigurati dei sopravvissuti di Preci o i frontoni sfregiati delle chiese di Norcia. Sono questioni sulle quali il governo non può e non deve sbagliare, se vuole ottenere il supporto dei partner in Europa e il sostegno delle opposizioni in Italia.
In Europa occorre una chiarezza che finora è obiettivamente mancata. Se la manovra economica era scritta sull’acqua prima del sisma, ora lo è forse ancora di più. Nella lettera di risposta ai rilievi della Ue, Padoan ha cifrato i maggiori costi per la ricostruzione in due decimi di Pil, cioè 3,4 miliardi. A leggere i testi della legge di bilancio si scopre invece che gli stanziamenti previsti dal governo sono molto inferiori: 100 milioni per la “ricostruzione privata” (cioè “per la concessione del credito d’imposta maturato in relazione all’accesso ai finanziamenti agevolati”) più altri 200 milioni “per la concessione di contributi finalizzati alla ricostruzione pubblica”.
In tutto fanno 300 milioni. Se a questi si aggiungono gli altri 300 milioni di “cofinanziamento regionale di fondi strutturali”, il totale delle risorse per il 2017 fa solo 600 milioni. Come si arriva ai 3,4 miliardi di “flessibilità aggiuntiva” chiesti all’Europa? Per quali incontrollabili rivoli della spesa, diversa da quella necessaria al dopo-sisma, rischia di disperdersi lo stanziamento “eccezionale” preteso dal governo in deroga al Patto di stabilità?
Se è questo il dubbio che serpeggia a Bruxelles, la reazione più appropriata da Roma non deve essere l’ira funesta, ma la collaborazione istituzionale. La manovra è malpensata, malfatta e malscritta. L’Europa, evidentemente, teme che la vera “circostanza eccezionale” (per la quale il premier chiede la possibilità di fare più deficit) non sia il terremoto, ma sia il referendum. E cioè che quei 2,8 miliardi di fondi stanziati per il sisma (di cui non c’è traccia nelle tabelle della legge di stabilità, e che risultano dalla differenza tra i 3,4 miliardi richiesti in disavanzo e i 600 milioni effettivamente iscritti a bilancio), più che a finanziare la messa in sicurezza di case chiese e scuole, servano a coprire le “mancette referendarie”: dalla quattordicesima ai pensionati al bonus alle mamme, dai fondi per il trasporto in Campania ai ponti sullo stretto in Sicilia.
Può apparire odioso quanto si vuole. Ma allo stato attuale, viste le troppe incongruenze della manovra, è un sospetto legittimo. Il 4 dicembre l’Italia va alle urne per la riforma costituzionale. A primavera si vota per le presidenziali in Francia. Subito dopo tocca alle legislative in Germania. Arginare l’uso elettorale dei deficit pubblici è un dovere comune. Dunque, Renzi ha un modo molto semplice per fugare i sospetti di Bruxelles: chiarisca in modo inequivocabile com’è articolata la legge di stabilità. Spieghi dove e come saranno usati quei due decimi in più di spesa, con destinazione esclusiva agli investimenti del dopo terremoto.
Il ragionamento vale anche in Italia. L’appello alla famosa e fumosa “coesione nazionale” può avere qualche senso solo se è costruito sulla totale trasparenza delle azioni e delle intenzioni. Di fronte a questa tragedia italiana non possono esserci zone d’ombra. Dal terremoto del Belice del 1968 abbiamo avuto sette eventi sismici, costati 122 miliardi. Su 30 milioni di abitazioni, 15 milioni sono state costruite prima del 1974, e sono considerate a rischio sismico. Mettere in sicurezza gli immobili delle zone più esposte al pericolo richiede 130 miliardi.
Rimettere in piedi questo Paese è un’opera titanica. Renzi dimostri di esserne all’altezza, giocando a viso aperto ma con i conti in regola. Solo se fa questo può presentarsi in Parlamento e mettere con le spalle al muro una destra berlusconiana che deve ancora farsi perdonare lo scandalo vergognoso delle malinconiche “new town” dell’Aquila, e un Movimento grillino che deve ancora chiedere scusa per le patetiche fumisterie complottarde di certi suoi stralunati “cittadini”. Ognuno faccia la sua parte, con rigore ma con responsabilità. Questa Italia ferita ha bisogno di tutto, fuorché, come cantava De André, di «regine del tua culpa che affollano i parrucchieri ».