mercoledì 2 novembre 2016

Corriere 2.11.16
Chi scommette contro l’Italia
di Federico Fubini

Un sondaggio fra operatori dei mercati internazionali indica l’Italia come il Paese con le maggiori probabilità di uscire dall’euro (9,9%) entro dodici mesi. Più della Grecia.
Questo proprio non era atteso neanche in un Paese così attento ai sorpassi in economia, da quello inflitto alla Gran Bretagna nel 1987 all’altro subito dalla Spagna nel reddito pro capite nel 2007. Anche oggi potrebbe facilmente rivelarsi illusorio come i primi due, eppure almeno per ora c’è: per la prima volta le probabilità che l’Italia esca dall’euro nel prossimo anno sarebbero superiori a quelle della Grecia, secondo un migliaio di investitori sentiti da Sentix.
Da giugno del 2012 quest’agenzia elvetico-austriaca pubblica ogni mese lo «euro break-up index», un sondaggio fra un migliaio di operatori dei mercati internazionali sulle probabilità che la moneta europea rimanga in vigore o perda pezzi nel giro di un anno. Da ieri Sentix indica l’Italia come il Paese che avrebbe le maggiori probabilità di uscire dall’euro (il 9,9%) entro dodici mesi, superando la Grecia (all’8,5%). Neanche all’apice della crisi del debito la terza economia dell’area euro era mai stata considerata così esposta; né era mai successo che qualche altro Paese venisse fotografato davanti alla Grecia in questo sondaggio.
Sentix, negli anni, si è dimostrato un metodo di previsione piuttosto mediocre: nel 2012 dava un’uscita di Atene dall’euro come probabile al 70%. Anche molti degli investitori del tipo di quelli sentiti in questo sondaggio hanno una visione limitata dello scacchiere europeo: gli stessi che puntavano sul default imminente dell’Italia o della Spagna nel 2012 erano pronti a pagare i governi di Roma e Madrid (attraverso tassi d’interesse negativi) pur di prestare loro i propri soldi.
Sentix però rivela qualcosa di più concreto riguardo alla fase attuale: i mercati finanziari, quelli che permettono alla Repubblica italiana di finanziarsi con circa 400 miliardi di euro di nuovi prestiti ogni anno, sono sempre più nervosi in vista del referendum del 4 dicembre. Lo sono al punto che il quadro di finanza pubblica presentato dal governo a Bruxelles sembra ormai compatibile solo con un Sì alla riforma costituzionale. Il prezzo che i creditori dello Stato sono disposti a dare a una vittoria del No è tale che l’intero impianto di finanza pubblica tornerebbe in discussione, e per la prima volta da nove anni il deficit pubblico salirebbe in rapporto al reddito nazionale (Pil).
Visto così, anche da Bruxelles, il dissidio sul trattamento contabile di una somma da 0,2% di Pil per la prevenzione antisismica torna in secondo piano.
Le ragioni sono evidenti nel costo di finanziamento del debito pubblico dell’Italia e nell’andamento dei rendimenti dei titoli di Stato. L’intera strategia di stabilizzazione del governo è fondata su un calo degli interessi che deve pagare: questa cifra valeva il 4,8% del Pil quando Matteo Renzi è entrato a Palazzo Chigi, è stimata al 4% quest’anno ed era prevista al 3,7% nel 2017, in base alle aspettative di mercato prevalenti appena un paio di settimane fa. Ciò significa che la spesa pubblica per onorare il debito l’anno prossimo sarebbe — o sarebbe stata — più bassa di cinque miliardi: una somma superiore a quanto serve nei casi peggiori per gestire gli sbarchi di migranti.
Queste stime del Tesoro sono basate su prezzi e rendimenti dei titoli pubblici diffusi nel mercato nel momento in cui la legge di Stabilità è stata scritta a metà ottobre. Da allora però la percezione che si avvicinano un aumento dei tassi d’interesse negli Stati Uniti, e un piccolo ritorno di inflazione e di spesa pubblica a Washington, Londra e Pechino, hanno depresso i prezzi e alzato i rendimenti delle obbligazioni quasi ovunque. Ma soprattutto, la forza del No nei sondaggi sul referendum, la crescita quasi zero e i problemi bancari in Italia hanno reso i bond del Tesoro di Roma i più fragili dell’area euro. I rendimenti dei titoli di Stato italiani a dieci anni sono schizzati in alto in un mese dall’1,25% all’1,75%, con l’ultimo strappo di ieri: è la performance peggiore in Europa, anche rispetto al Regno Unito e ormai in ritardo di quasi 0,5% sulla Spagna. Con la Banca d’Italia che compra titoli del Tesoro per quasi dieci miliardi al mese per conto della Banca centrale europea, questo è la spia che oggi non ci sono quasi compratori esteri per il debito italiano presente sul mercato.
In queste condizioni, non è difficile prevedere che un’eventuale vittoria del No farebbe salire ancora gli interessi, vanificherebbe miliardi di risparmi sul costo del debito e potrebbe far aumentare il deficit nel 2017 rispetto a quest’anno. La Commissione Ue ha una ragione di più per vigilare sui conti dell’Italia, e non far niente che rischi di favorire una sconfitta del governo nelle urne a dicembre.