Repubblica 2.11.16
L’integrità scomoda di Tina Anselmi
La Commissione sulla P2 le costò l’isolamento e l’ostracismo da parte del suo partito per l’inflessibilità con cui la condusse
di Chiara Saraceno
ORA
che Tina Anselmi è morta tutti si ricordano di lei e ne esaltano la
figura politica ed umana, il ruolo importante che ha avuto nella
costruzione della democrazia italiana fin dalla sua origine, con la
Resistenza, e successivamente con il lavoro nel sindacato e poi, da
politica e ministra, con il sostegno attivo alla parità tra le donne e
gli uomini, al diritto alla salute tramite l’istituzione del servizio
sanitario nazionale. E, ancora, come presidente della Commissione di
indagine sulla P2, che le costò l’isolamento e poi l’ostracismo da parte
del suo partito per l’inflessibile integrità con cui la condusse e la
tenacia con cui continuò a chiedere che se ne traessero le conseguenze
sul piano giudiziario e politico. Quell’ostracismo che prima la fece
emarginare dalla politica e poi è diventato un lungo oblio.
Per
molti, troppi anni ci si è dimenticati di lei, ben prima che la malattia
la costringesse a chiudere i suoi ponti con il mondo. È vero che ad
ogni elezione presidenziale, a partire dal 1992, qualche gruppo della
società civile ha fatto il suo nome come possibile candidata. Ma è
sempre rimasta una cosa puramente simbolica, senza alcuna eco, e tanto
meno sostegno, non solo nei partiti, a partire dal suo e dai suoi
colleghi di un tempo tuttora ben insediati nei gangli del potere, ma
anche nei giornali e nei media e in parte anche nel movimento delle
donne.
Non veniva neppure nominata quando si evocava ritualmente
quel gruppo di persone che si amava definire “riserva della nazione” —
tutti rigorosamente del sesso “giusto”, anche se non tutti avevano e
hanno un curriculum umano e politico dello suo spessore. Non l’hanno
fatta neppure senatrice a vita, cosa che io, che non sono mai stata
democristiana, trovo personalmente non solo una ingiustizia, ma uno
scandalo nei confronti di una persona alla quale la democrazia italiana è
molto debitrice e che avrebbe più che meritato di occupare un ruolo
designato per chi ha “illustrato la patria per altissimi meriti nel
campo sociale, scientifico, artistico e letterario”. Non l’avrà
illustrato in campo scientifico, artistico o letterario, ma sociale
sicuramente sì. Non ci hanno pensato né Ciampi né Napolitano, i due
presidenti che avrebbero potuto farlo e dai quali ci si sarebbe
aspettati la sensibilità necessaria per deciderlo. Rimane il sospetto
che non lo abbiano fatto perché era non solo una donna, caratteristica
che nel nostro Paese continua ad essere una debolezza quando si tratta
di trovare figure rappresentative, ma perché la sua storia politica,
proprio per le sue caratteristiche di autonomia e integrità, la rendeva
scomoda. Meglio lasciarla nell’oblio.
La sua rimozione dalla
narrazione pubblica è talmente riuscita che, quando Elsa Fornero venne
designata ministra del Lavoro nel governo Monti, molti, anche nei media,
parlarono di prima donna a capo di quel dicastero, dimenticando che
c’era stata, molti anni prima, appunto Anselmi, in un periodo
altrettanto difficile e quando non era affatto scontato per una donna
trattare da pari a pari con i colleghi di governo, con i rappresentanti
sindacali e delle imprese.
La riparazione, parziale, a questo
lungo oblio è avvenuta solo pochi mesi fa, quando le è stato dedicato un
francobollo. Chissà che cosa avrebbe detto, quando era ancora lucida e
piena di ironia, di questa monumentalizzazione ex post e quando ormai
era fuori gioco, lei che ancora pochi anni fa aveva ammonito: «Lo ripeto
sempre, a cominciare dalle mie nipotine, che nessuna vittoria è
irreversibile. Dopo aver vinto possiamo anche perdere. Negli anni
Sessanta e nei primi anni Settanta noi donne impegnate in politica e nei
movimenti femminili e femministi, noi parlamentari con responsabilità
nei partiti e nel governo eravamo ancora pioniere. Questa parola fa
pensare che in seguito saremmo diventate più numerose e avremmo contato
di più. Purtroppo, certe speranze sembrano non aver dato i frutti che
avevano in serbo».
Aggiungo che per lei «contare di più» non
significava solo “esserci”, ma lavorare per migliorare la qualità sia
della vita delle persone sia della democrazia.