Repubblica 29.11.16
La scomparsa del Capo
Come nelle antiche esequie reali, un autentico teatro sacralizza l’ultimo viaggio del Comandante
Così l’isola celebra l’apoteosi dell’ultimo sovrano del secolo breve
di Marino Niola
HASTA
SIEMPRE Comandante. Ieri in Plaza de la Revolución è cominciato il
solenne addio di Cuba a Fidel Castro. Una folla oceanica sfila davanti
all’urna con le ceneri del Líder Máximo, circondata da un picchetto
d’onore di militari in alta uniforme e sovrastata da una sua foto in
bianco e nero. Il lutto per l’ultima icona del Novecento durerà nove
giorni. E culminerà il 4 dicembre a Santiago, città madre della
rivoluzione, da dove nel 1959 partì la marcia vittoriosa della Carovana
della Libertad. Il compagno presidente riposerà a Santa Ifigenia, il
cimitero dei padri della patria, accanto a José Marti, il liberatore di
Cuba dalla colonizzazione spagnola e a Compay Segundo, l’entrañable
presencia del Buena Vista Social Club, che toccava la chitarra con la
grazia di un Orfeo tropicale.
Adesso un’isola senza voce e senza
musica si prepara a celebrare l’apoteosi laica dell’ultimo sovrano del
secolo breve. E lo fa ricorrendo a una simbologia millenaria che, sin
dai tempi degli imperatori romani, fa della scomparsa del capo, un
autentico teatro della morte. Una grande drammatizzazione dello scarto
che sussiste tra l’immortalità del potere e la mortalità dell’uomo che
lo incarna. Quello stesso scarto che separa le ceneri di Fidel dalla
gigantografia dell’eroe rivoluzionario. I resti mortali dell’uomo dalla
sua effigie immortale. Che, ora come allora, serve a rappresentare e
garantire la continuità del potere e dunque la continuità della vita di
tutti.
Nel Medio Evo, un’autorevole dottrina politica, destinata a
sopravvivere fino alla fine delle monarchie assolute, accreditava ai
regnanti due nature, a immagine e somiglianza di Cristo. È la cosiddetta
teoria dei due corpi del re, secondo la quale il sovrano possiede sia
un corpo fisico, che palpita, sanguina, si ammala, muore. Sia un corpo
politico, che coincide con la sua nazione e il suo popolo, di cui è il
simbolo supremo. Questa seconda natura invece è considerata immortale.
La simbiosi tra queste due facce della sovranità rendeva indispensabile
scongiurare in tutti i modi il contagio di malattie e lo stesso
invecchiamento del re, perché l’indebolirsi del suo organismo fisico non
contagiasse l’organismo sociale. Perché in un certo senso l’uomo può
morire, ma lo Stato assolutamente no. Tanto che nella Francia e
nell’Inghilterra rinascimentali per esorcizzare il pericolo
dell’interregno, cioè del vuoto di potere che si apriva alla morte del
sovrano, si nutriva e si trattava come persona viva un simulacro del
defunto, una sorta di manichino regale, fino all’incoronazione del
successore. Insomma, il re è morto, viva il re!
Si trattava di una
sorta di transfert simbolico dal potere verso l’immagine. Come dire che
la mano del defunto non ha più la forza di reggere lo scettro, ma non
ha ancora lasciato la presa. Paradossalmente per allungare la vita del
morto, ogni giorno veniva visitato dai medici il suo avatar, fatto di
cera o di cuoio, che per tutta la durata del periodo di lutto ne
constatavano il peggioramento. Come se il cadavere fosse ancora
gravemente ammalato, ma non spirato. Questa messa in scena si chiamava
funus imaginarium, ovvero funerale dell’immagine. Un rito che prevedeva
una lunghissima processione attraverso l’intera nazione, durante la
quale i due corpi del sovrano erano inseparabili. Il climax veniva
raggiunto con il rogo finale del fantoccio su una pira di aromi e
incensi, che trasportavano l’immagine del sovrano in cielo tra gli dei.
Solo allora il re veniva dichiarato morto. E sepolto.
Il caso più
celebre è quello del funerale di Francesco I di Francia, avvenuto nel
1547 e che durò alcuni mesi, perché il feretro regale doveva toccare
tutte le città più importanti e non poteva saltarne nemmeno una, senza
provocare una rivolta popolare.
Questa necessità di sospendere il
tempo prima della sepoltura trova la sua spiegazione nel fatto che il
rito funebre ha un fortissimo senso politico, sociale, culturale. E
soprattutto emotivo. In questo senso l’urna cineraria del Jefe Máximo
toccherà insieme alle città e ai villaggi, anche e soprattutto i cuori
del suo popolo. Anche perché l’itinerario ripercorre a ritroso il
cammino dei barbudos. È un ritorno nel ventre materno della revolución.
Che torna sui suoi passi. Fino a quella prova generale che è stato
l’assalto fallito alla caserma Moncada di Santiago del 26 luglio del
1953, quando Fidel lanciò il primo guanto di sfida a Fulgencio Batista.
Insomma proprio come nelle antiche esequie reali, e come nelle
processioni delle icone religiose, l’ultimo viaggio del Comandante
sacralizza un percorso che è fatto di spazio e di tempo, di sentimenti e
di avvenimenti. Così il corpo cremato del capo riassume insieme la
storia e la geografia dell