Repubblica 29.11.16
La scelta più giusta è quella di votare
di Michele Ainis
Q
UESTO referendum verrà deciso dagli indecisi. Che però si
distribuiscono in due categorie: quelli che non sanno “come” votare;
quelli che non sanno “se” votare. Ecco, gli astenuti. Meritano
un’ammonizione o una medaglia? E c’è differenza tra il non voto alle
politiche oppure a un referendum?
C’È UN’ULTERIORE differenza tra
referendum abrogativi e costituzionali? Sulla Carta (quella del 1947) il
voto costituirebbe l’adempimento d’un «dovere civico». Dovere che i
nostri nonni prendevano sul serio, e infatti fino agli anni Settanta
l’affluenza superò il 90% del totale. Lo prendevano sul serio anche i
politici che scrivevano le leggi, tanto che nel 1957 il Testo unico
delle leggi elettorali contemplò addirittura l’obbligo di giustificarsi
presso il sindaco, per chi non avesse preso parte alla consultazione
popolare. Dopo di che il sindaco lo metteva in castigo dietro la
lavagna, con un paio d’orecchie d’asino sul capo: il suo nome finiva in
un elenco esposto al pubblico ludibrio nell’albo comunale, e per
sovrapprezzo l’astensionista si beccava la menzione «non ha votato» nei
certificati di buona condotta.
Altri tempi, altre tempre. Forse un
po’ troppo inclini alla disciplina militare, gli elettori non sono mica
dei soldati. E dopotutto il voto è un diritto, prima che un dovere. I
diritti, li eserciti soltanto se ne hai voglia, altrimenti si
trasformerebbero in obblighi. Quanto ai doveri, spettano unicamente agli
altri, diceva Oscar Wilde. Sarà per questo che nei primi anni Novanta
quelle norme vennero abrogate (articolo 13 del decreto legislativo 20
dicembre 1993, n. 534). Nel frattempo l’affluenza s’andava prosciugando
come un torrente siciliano: dal 92% del 1948 all’81% del 2001, fino al
72% toccato alle politiche del 2013. Senza dire delle amministrative:
alle regionali del 2015 la partecipazione è precipitata nel suo punto
più basso (52%), crollando di 40 punti in quarant’anni. Mentre alle
provinciali del 2013 si recarono alle urne appena 4 italiani su 10.
Insomma,
fra eletti ed elettori c’è un matrimonio in crisi, se non proprio un
divorzio. Però l’astensionismo assume significati ben diversi nei vari
tipi di consultazione. Alle elezioni politiche o amministrative, la
scelta del non voto implica un rigetto — complessivo e radicale —
rispetto all’offerta dei partiti; chi vive in Italia potrà dissentire,
ma può anche capirne le ragioni. Al referendum abrogativo, viceversa,
l’astensionismo trasmette due messaggi. O segnala disinteresse verso
l’oggetto stesso del quesito (le trivellazioni in mare, per esempio: in
aprile l’affluenza s’arrestò al 31%). Oppure è un no rafforzato, è un
espediente per far saltare il quorum di validità dei referendum,
vincendo la partita a tavolino (successe nel 2005, sulla fecondazione
assistita, dopo l’appello della Conferenza episcopale a disertare il
voto). In entrambi i casi l’astensione rappresenta comunque una scelta
razionale, utile rispetto alle intenzioni, proprio perché c’è il quorum.
Ma
un referendum costituzionale no, lì è tutta un’altra storia. In quel
caso chi diserta i seggi esprime indifferenza per la Costituzione, per
le regole di fondo del nostro vivere comune. Scimmiottando Rigoletto, è
come se dicesse «Questa o quella per me pari sono». Insomma, la nuova
Carta vale quella vecchia, nessuna delle due vale il mio tempo: meglio
trascorrerlo altrimenti che in una coda ai seggi elettorali. Non proprio
un modello d’impegno civile. Ed è un guaio, perché una Costituzione
senza popolo è come una chiesa vuota di fedeli. Guaio doppio, perché in
genere le decisioni prese dalla minoranza sono cattive decisioni. Nel
2001, il referendum sul nuovo Titolo V — che elargì competenze e
provvidenze alle Regioni — fu approvato con la partecipazione del 34%
del corpo elettorale; e stiamo ancora a torcerci le mani.
Certo,
sarebbe d’aiuto il buon esempio. Quello dei nostri rappresentanti in
Parlamento: se il voto sulla riforma è doveroso per noi, a maggior
ragione lo è per loro. Viceversa il 12 aprile scorso, quando la Camera
timbrò definitivamente la riforma, le opposizioni uscirono dall’aula,
senza partecipare al voto. Ma l’Aventino non è mai una buona scelta. E
c’è invece una scelta, su cui domenica dovremo esercitarci, forse più
essenziale del voto favorevole o contrario alla riforma: la scelta
stessa di votare. L’affluenza alle urne ci dirà se vogliamo ancora bene
alla nostra vecchia Carta.