lunedì 28 novembre 2016

Repubblica 28.11.16
La violenza e gli abusi di potere sul corpo di Stefano Cucchi
Il libro “Il corpo del reato”, di Carlo Bonini
di Giuliano Pisapia

L’arresto, il pestaggio, la morte, i silenzi, le deviazioni, i processi. Carlo Bonini ricostruisce in un libro la terribile fine del giovane romano e la fatica per giungere ad accertare la verità
«Gliene abbiamo date tante a quel drogato di merda». «Non mi fece i nomi dei colleghi, ma raccontò i dettagli di quella sera, rideva mentre me lo raccontava, mi diceva che si erano divertiti a picchiare, e quando provai a dire che quella cosa mi faceva schifo, lui mi rispose: “Chillo è solo ‘nu drugato ‘e merda”. E non era la prima volta: mi aveva raccontato di altri pestaggi su altri disgraziati arrestati e portati in caserma, soprattutto extracomunitari, anche se mi aveva detto che non avevano mai pestato nessuno così violentemente come Cucchi». Stefano Cucchi è morto dopo essere stato massacrato di botte. Ce lo dice il suo corpo martoriato; ce lo dicono le parole dei carabinieri che avevano il compito, e il dovere, di custodirlo e garantire la sua incolumità, la sua vita.
Il libro di Carlo Bonini ( Il corpo del reato, Feltrinelli) racconta la violenza, l’agonia, il calvario, la morte di Stefano Cucchi. Racconta i depistaggi, l’omertà, le bugie, gli atti falsificati, il tentativo (in parte riuscito) di addossare ogni responsabilità alla polizia penitenziaria. E lo fa, lo può fare, sulla base di atti processuali, testimonianze, indagini difensive, perizie e consulenze tecniche che, in buona o cattiva fede, hanno sviato la giustizia. Dopo 7 anni e quattro processi tutti gli imputati sono stati assolti. Nessuno, finora, ci dicono le sentenze, è responsabile di una morte così atroce. Non perché non ci siano colpevoli, ma perché, come si evince dalla sentenza della Corte d’Assise di appello, i responsabili del pestaggio sono altri. Sembra un thriller, e invece è la storia vera di un ragazzo che, se solo fossero stati rispettati i suoi diritti, le garanzie che la nostra Costituzione e i nostri codici prevedono come “inviolabili”, sarebbe ancora vivo e potrebbe confermare quella verità che, solo ora, sta faticosamente emergendo.
Ma il libro di Bonini ci fa conoscere anche persone eccezionali, a cominciare da Ilaria, la sorella di Stefano. Che sembra una donna minuta, fragile, e che invece diventa fortissima, inesausta. Persone che con coraggio non hanno fatto passi indietro, non si sono fatte intimorire, malgrado le delusioni, il dolore, le lacrime, talvolta anche la paura. Insieme a Ilaria, Rita e Giovanni, i genitori; Fabio Anselmo, l’avvocato che ha assistito la famiglia e che, anche nei momenti più difficili, anche quando ha vissuto la «catastrofe della giustizia» non si è perso d’animo, non ha mollato, ma ha continuato nel suo impegno per la verità; l’avvocato che Ilaria ha scelto dopo aver letto che era riuscito ad avere giustizia per Federico Aldovrandi, altro ragazzo morto dopo essere stato pestato a sangue durante il suo arresto. E conosciamo un coraggioso medico legale, il professor Vittorio Fineschi, che mette a disposizione il suo sapere, e la sua passione, per impedire che vincano la prepotenza e l’ingiustizia. E, a conferma che non bisogna mai generalizzare e che ovunque vi possono essere mele marce, viviamo il tormento di altri carabinieri, un uomo e una donna, che — dopo il buio giudiziario — rompono il muro dell’omertà e, con la loro testimonianza, fanno riaprire il processo. E la professionalità di magistrati che, dopo aver letto e riletto gli atti processuali, dopo aver visto le immagini sconvolgenti del corpo senza vita di Stefano, non si fermano alla lettura di referti medici che parlano di morte naturale o di arresto cardiaco, ma approfondiscono, vogliono capire e fanno il loro dovere fino in fondo. Nessuno di loro vuole un responsabile ad ogni costo, ma non vogliono arrendersi di fronte alle difficoltà.
Verità e Giustizia. Un mantra che ci perseguita. Un mantra che, soprattutto dopo le violenze, le torture, la sospensione della democrazia durante il G8 di Genova, ha accompagnato la vita e l’impegno di tanti. E che ha coinvolto familiari, avvocati, magistrati, parlamentari, singoli cittadini che credono nella giustizia e non si voltano dall’altra parte di fronte alle ingiustizie. Perché, per un caso Cucchi, ve ne sono tanti altri, non denunciati o per i quali la verità dei fatti contrasta con la verità giudiziaria. E tra questi, Giulio Regeni, la cui morte, scrive Bonini, è «così diversa e così simile a quella di Stefano Cucchi».
Storie vere che debbono aiutarci a riflettere sul quanto sia fondamentale «oltre alla presunzione d’innocenza, anche la rigorosa applicazione delle garanzie processuali, l’habeas corpus, l’integrità fisica e psicologica di chi è accusato di un reato». Per imputati e vittime. Perché se, invece che in una caserma, Stefano Cucchi fosse stato portato in carcere, come prevedeva la legge; se avesse potuto parlare con il suo avvocato o incontrare un suo familiare, come era suo diritto; se fossero state rispettate le regole e le garanzie, oggi lui — e non solo il suo corpo — potrebbe essere testimone di verità.
Non è stato così, ma ora e sempre, quella verità che sta emergendo con chiarezza, deve diventare anche verità giudiziaria. Senza verità non vi può essere memoria, senza Giustizia viene meno la fiducia nello Stato.