sabato 26 novembre 2016

Repubblica 26.11.16
La Brexit e la dura realtà
di Timothy Garton Ash

ORMAI non mi sposto mai senza il mio brexitometro. Misura due valori: il tempo intercorrente tra l’avvio di una qualsiasi conversazione e il primo accenno alla Brexit (in media tre minuti) e la percentuale dei miei interlocutori che la reputa una buona idea. Negli ultimi due mesi sono stato in America, Canada, Germania, Austria e Polonia e il secondo dato attualmente si aggira attorno all’un per cento.
Il restante 99 per cento pensa che noi britannici siamo usciti di testa. Com’è possibile che un popolo noto in tutto il mondo per il suo pragmatismo, empirismo e buon senso agisca in maniera così palesemente contraria ai suoi interessi? Lo stato d’animo di chi si pone la domanda non è di rabbia o disperazione, lo definirei una malinconica incredulità. Ovviamente i paladini della Brexit replicheranno con sarcasmo che il campione rappresentativo è costituito dagli irrimediabili eurofili della mia cerchia, ma in realtà ho scelto il più ampio ventaglio possibile di soggetti. Ritoccate pure la percentuale, saliamo al 10, addirittura al 20%, ma bisogna vivere su un altro pianeta per immaginare che il mondo pensi che la Gran Bretagna abbia fatto una scelta intelligente. Che poi possa trattarsi del pianeta Trump è di scarsa consolazione.
Qualunque analisi su “come affrontare la Brexit” ha quindi un avvio deprimente. Con uno stretto margine di voti (52% contro 48%) la Gran Bretagna ha deciso di danneggiare a lungo termine se stessa, l’Europa e, in termini più ampi, l’ordine liberale internazionale. Per il prossimo futuro possiamo solo sperare di ridurre al massimo il probabile danno e puntare sui pochi lati positivi di questa tragedia. In sintesi la politica britannica dei prossimi cinque, dieci anni, sarà impostata alla ricerca del male minore. Come disporsi a questo compito ingrato? Le incertezze sono tali e tante che è folle affidarsi a strategie troppo precise. Credo che i liberaldemocratici sbaglino a proporre ora un altro referendum da tenersi tra due anni sul risultato dei negoziati e ancor di più sbaglia il leader del partito, Tim Farron, a farne un’arma contro il Labour, come sull’ultimo numero del New European.
Serve invece un misto di fermezza strategica e flessibilità tattica. In questa fase è essenziale far sì che si vada al voto in Parlamento prima di invocare l’articolo 50 e dare avvio ai negoziati per la Brexit. È sempre più chiaro che le tappe del negoziato saranno probabilmente tre: le modalità di recesso, secondo le previsioni dall’articolo 50; un accordo transitorio, perché in due anni non si è mai esaurito un negoziato complesso come quello di impostare un rapporto completamente nuovo con l’Ue; quindi l’accordo definitivo. Nel conferire il mandato di negoziazione il Parlamento dovrebbe chiedere che la scelta del pieno accesso al mercato unico o, in alternativa, la partecipazione a un’unione doganale, siano esplorate a fondo assieme ai nostri partner europei.
Un sondaggio recente targato NatCen Social Research, pubblicato dall’Economist, mostra che la maggioranza degli intervistati, sia favorevoli che contrari alla Brexit, vogliono «consentire all’Ue di vendere liberamente beni e servizi in Gran Bretagna e viceversa» ma anche «che i cittadini Ue intenzionati a stabilirsi in Gran Bretagna siano trattati al pari degli extracomunitari». Quindi, consapevolmente o meno, vogliono la botte piena e la moglie ubriaca, secondo la dottrina di Boris Johnson. Di fronte alla scandalosa ipotesi che questo non sia possibile e in particolare all’idea di concedere la libera circolazione delle persone in cambio del libero mercato, si apre un netto divario tra i pro- leave, in questo caso fronte del no, e i pro- remain, qui fronte del si.
L’importanza della questione è tale che bisognerebbe sapere concretamente cosa è in ballo e l’unico modo per scoprirlo è andare al tavolo negoziale. Non bisogna però pretendere che il governo si impegni pubblicamente a portare avanti un piano negoziale preciso. La lettera di notifica a Bruxelles per avviare il negoziato di recesso previsto dall’articolo 50 dovrebbe essere il più possibile breve e aperta, facilitando gli altri 27 stati membri a concordare una risposta altrettanto breve e aperta, per dare avvio ai colloqui.
Il dibattito attualmente in corso in Gran Bretagna sulla scelta tra “soft Brexit” e “hard Brexit” ha dell’irreale. In fin dei conti l’impatto duro o morbido del recesso dipenderà più dagli altri che da noi. Diciamocelo chiaramente: la Gran Bretagna ha una posizione molto debole in un negoziato da concludersi in due anni (anche se l’orologio si può fermare per un po’) il cui esito richiede la piena approvazione da parte di altri 27 stati (anche se in teoria da ultimo basta il voto a maggioranza qualificata). E le scorte di buona volontà del continente nei confronti di un partner scomodo da decenni ormai sono andate esaurite. Lasciate perdere le sbruffonate dei pro Brexit secondo cui “loro hanno bisogno di noi più che noi di loro”. Questi loro, ossia i cittadini continentali, la vedono in maniera un po’ diversa.
Nell’arco dei prossimi dodici mesi si profilano le presidenziali in Austria, un referendum in Italia, le elezioni parlamentari in Olanda, le presidenziali in Francia e le elezioni generali in Germania. Tutti gli appuntamenti elettorali, in particolare quelli in Francia e in Germania, influenzeranno la posizione dei nostri partner europei quando si arriverà al momento critico del negoziato, nel 2018. Per di più non sappiamo quanto saranno palpabili a quel punto le conseguenze economiche negative per la Gran Bretagna dell’incertezza riguardo alla Brexit. Le previsioni dell’”Office for Budget Responsibility”, organismo indipendente, e della Banca d’Inghilterra, sono dichiaratamente ancor più incerte rispetto a prima del referendum sulla Brexit, e in ogni caso, si tratta solo di numeri. Il problema vero è stabilire in che misura gli elettori britannici patiranno già le conseguenze economiche negative della Brexit e quanto timore avranno che si aggravino, quando verrà il momento cruciale di decidere a quale accordo puntare.
In un periodo come questo, pieno di note incognite, è saggio concordare un rigoroso iter parlamentare, informando l’opinione pubblica sui dati reali e sulle ardue scelte, attuare un’attenta preparazione diplomatica, mantenere le alternative aperte e attendere vigili l’opportunità giusta. Potrà sembrare noioso, ma chi ha mai detto che la Brexit sarebbe stata uno spasso?
L’autore è uno storico britannico e professore all’Università di Oxford Traduzione di Emilia Benghi