La Stampa 26.11.16
“La mia vita da mercenario assoldato dalle compagnie per sparare ai pirati”
Il racconto di un estone: “Costiamo meno dei militari regolari Per 3 mila dollari risolviamo problemi, anche con mezzi illegali”
di Domenico Quirico
Veniva
chiamato… come veniva chiamato? Non lo so, non fatemene una colpa.
Innanzitutto tra noi non c’era intimità, uno incontrato in un bar vicino
al porto di Anversa, un locale sporco, odore di birra da poco prezzo,
un ragazzo dal colore giallo di meticcio stava lavando il pavimento, in
un angolo una donna dagli occhi apatici, una prostituta, aspettava, già
alle nove del mattino, qualche cliente disperato.
E poi lui,
quando si presentava, tirava fuori sempre nuove identità. A me ha dato
il nome di battaglia, Lembitu, un eroe estone del Medioevo che aveva
combattuto contro i re danesi, mi ha spiegato.
Ma chissà quanti ne
aveva di questi nomi di battaglia, uno per porto e per contratto, a
Gibuti, in Sri Lanka, in Sud Africa, ad Aden. Allora per noi sarà per
sempre Lembitu, mercenario estone e cacciatore di pirati, capace di
raccontare storie selvagge e terribili di guerra e di mare. Perché
mentre cinque o sei flotte internazionali pattugliano pigramente
l’Oceano Indiano al costo di tre milioni di euro al giorno e il problema
dei pirati somali è ufficialmente risolto, Lembitu su una nave di
mastini della guerra assoldati in mezzo mondo, e pagati dagli armatori,
dà loro la caccia senza rispettare leggi e regole internazionali,
semplicemente per ucciderli.
Ho incontrato molti combattenti duri,
senza pietà, li riconosco dal volto, torva espressione di cacciatori di
uomini dalle labbra compresse e dallo sguardo aguzzo. Eppure fin
dall’inizio, ad Anversa, avevo la certezza che lui fosse un uomo avido
di recitare la propria biografia come un attore recita una parte.
Ricordo, e ricorderò a lungo, l’incontro con l’estone. Si aprì e si
chiuse in quel caffè del porto come una ferita. Questo è il suo
racconto. Da ascoltare con gli occhi chiusi.
«…Hai sentito che
freddo fuori? Dio, se mi capitasse di trovarmi di nuovo in una buona
tempesta di neve, di quelle del mio Paese! Giuro che mi spoglierei nudo e
mi rotolerei dentro. Quando ero in Afghanistan con il contingente
estone ci gettavamo nella neve senza niente addosso. E quegli stronzi di
afghani intirizziti nelle loro palandrane ci guardavano con gli occhi
fuori. Ma non erano solo risate. L’Afghanistan sono montagne e le
montagne se fai la guerra sono una gran fregatura. Tutto quello che ti
serve devi portartelo dietro, ti servono munizioni e infili caricatori
di zinco e mezza cassa di granate in tutte le tasche, nello zaino, le
appendi alla cintura. Ti segano all’inguine e alle cosce, ti pesano sul
collo.
Adesso, da quando lavoro in mare, son solo luoghi caldi.
Troppo, alla malora. Non posso più soffrire il mare. Non riesco a
guardarlo senza sentire l’odore di quella nave schifosa, il tanfo del
gabinetto otturato. Stiamo sempre in mutande, o nudi, a 42 gradi, i
volti sfatti, le guance setolose, tutti scuri come negri, anonimi,
puzziamo. Proprio una bella tribù di guerrieri.
E pensare che la
prima volta che ho visto la nave “Ohio” mi era sembrata proprio a
puntino. Forse era merito del mare, di quel mare. L’Oceano Indiano è
diverso da quello delle mie parti, fosco, scuro, avvolto da nebbie. Ah,
se me lo ricordo il primo giorno di ingaggio. Mentre su un gommone,
all’alba ci avvicinavamo, la “Ohio” ci aspettava al largo dello Sri
Lanka in acque internazionali fuori dalla curiosità della legge, il mare
ancora dormiva oppresso dal grande caldo umido e pesante. Un vapore
gravava su quella distesa immensa di silenzio. Poi in pochi minuti il
cielo si arrossa, il mare diventa di madreperla, sonnolento, sotto il
sole di fuoco riflette il cielo blu che gli assomiglia ma un poco più
pallido. Una massa grigia con brillanti righe rosse dipinte sul fumaiolo
e sulle murate si stacca davanti a noi. Dai, è quella. Cacciapirati
“Ohio”, quarantacinque metri di ferraglia appena verniciata, trecento
tonnellate messe insieme negli Anni Ottanta nei cantieri giapponesi come
guardiacoste e un’enorme scritta in nero “Sea Man guard”. Il guardiano
del mare. Così da lontano sembrava davvero una vera nave da guerra di
qualche marina ufficiale. Era quello il primo trucco, l’avrei scoperto
poi.
Tre giorni avevamo aspettato la chiamata in quel sudicio
albergo di Colombo. L’aria anche di notte si incollava alla pelle come
una mano molle. Gli altri, gli altri ingaggiati, li avevo riconosciuti
subito tra i clienti: grossi, i movimenti a scatti tipici dei militari,
gli zaini enormi con dentro tutta la vita, c’erano altri due estoni e
alcuni inglesi. Per me era la prima volta e non volevo farlo capire.
Ancora non ci credevo. La “Advant Fort” aveva risposto alla mia
richiesta di ingaggio! Tremila dollari al mese depositati sul conto in
banca che gli indichi tu e sarebbero stati quattromila se fossi stato
capo team. Ma non avevo titoli sufficienti, c’era gente lì che aveva
fatto almeno un paio di guerre vere, reduci o disertori della Legione,
ex Sas, qualche russo degli Spetnaz. Sono tempi duri, c’è troppa
domanda, migliaia che si offrono per qualsiasi cosa preveda un fucile in
mano e la possibilità di sparare e così quei bastardi della “Advant
fort” possono offrire contratti da fame.
Bella storia, stai a
sentire. C’è un miliardario giordano che vive in Inghilterra, il signor
Samir Farajallah, che fonda una società per distruggere i pirati
nell’oceano indiano senza badare ai mezzi. Ha trecento mercenari,
quattro navi, una sede in Virginia con ammiragli americani in pensione e
gente dell’intelligence navale nel consiglio di amministrazione. Tanto
per avere le spalle coperte. Gli armatori di tutto il mondo lo pagano
perché costa meno dell’ingaggio dei militari regolari e garantisce i
risultati. Con ogni mezzo.
Insomma, per raccontarti come è andata:
mando la richiesta, un estone che si occupa degli arruolati del mio
Paese mi contatta via Skype, mi arriva il biglietto aereo per Colombo ed
eccomi qui. Ti verremo a cercare, aspetta. E infatti: saliamo a bordo
della “Ohio”, il ponte sembra bello, è lustro, non c’è ruggine. La nave
rulla ma in modo bonario, è piena di scricchiolii familiari. Lo scafo
sembra solido e parla di viaggi che dobbiamo fare insieme e delle
fatiche sopportate sulle strade del mare antiche come il mondo e nuove
come i passaggi che lo solcano. Siamo una trentina di militari da molti
posti, più o meno tutti parlano l’inglese. E poi ci sono sei uomini
dell’equipaggio più il capitano, tutti indiani. Accoccolati a poppa gli
indiani parlano tra loro fitto fitto, a voce bassa, fino a notte tarda.
Ma
era sotto coperta che c’erano i guai. Nessuna doccia, l’acqua te la
rovesciavi addosso, acqua gialla, puzzolente, non filtrata che dovevi
usare anche per lavarti i denti, dopo tre giorni tutti avevano la
dissenteria, il gabinetto otturato, odore acre di sudore che si fonde
coi fetori soliti delle stive. E faceva così caldo, il termometro sale
ogni giorno, i soli girano, i giorni mentre tagliamo i fusi orari
finiscono per fondersi in un’unica luce appannata e abbagliante che
acceca gli occhi. Così abbiamo cominciato a tuffarci in mare. Il
capitano ci ha avvertito, attenti ragazzi non li vedete ma qui è pieno
di squali. Chi se ne frega. Il giochino era chi non si butta è un
coniglio e allora per non perdere la faccia giù in acqua. Il cibo era
uno schifo totale, riso con dentro le formiche che camminavano e il
cuoco, un criminale, che diceva: ma non siete contenti? Son tutte
vitamine in più.
Sai: non si diventa amici su una nave così; ci si
è divide a seconda dei gruppi nazionali, si sta con gli estoni. E poi
di che vuoi parlare? Di donne, delle ore a mostrarsele sui telefonini,
quella più nuda e quella più puttana. Su una cosa tutti d’accordo,
essenziale è non conoscere la donna con cui si va, non ha che da esser
questo: sesso, l’altro sesso.
C’era una playstation sulla nave,
che lusso, e si faceva ginnastica sul ponte per ore: per stancarsi, per
far passare il tempo. Raccontano che la compagnia ha un’altra nave che
fa solo appoggio in mare ovvero porta viveri e munizioni ai “cacciatori”
come la “Ohio”, si chiama “Sultan”, la comanda pare un italiano e tiene
a bordo anche la moglie nigeriana, uno splendore. Dicono che ci sia
internet a bordo e una palestra, io non l’ho mai vista e forse son solo
cazzate.
La nave è come il carcere: dopo tre giorni sai tutto
degli altri e gli altri di te, come reagiscono alla fatica, quello che
non si lava perché l’acqua è sporca e quello che non si lava perché è un
sudicio. Ci sono dei pazzi lì, un inglese che ogni tanto saltava sul
ponte urlando e cominciava a sparare raffiche di mitra in tutte le
direzioni. Ci sono anche le notti, in mare. Senti che tutto dentro di te
si indurisce, si attorciglia, e si mette in guardia. Gli occhi vedono
meglio, l’udito si affina come nei gatti. La tensione è alta, ti aspetti
tutto e sei pronto a tutto.
C’è il momento in cui ti accorgi che
sei entrato nella zona calda, ci siamo e cominci a pensare: cazzo, sei
solo su questa nave schifosa abbandonato da tutti, se ti succede
qualcosa ti pagheranno? Saltano i nervi, scoppiano risse feroci per una
parola, qualcuno resta a terra nel sangue, e il capo sta a guardare.
Vivi
con i tuoi pensieri, la nave ti entra nel sangue, diventa tutto per te,
esci dalla realtà, non hai nulla da fare se non sparare a qualcuno che
non sai chi è, il mondo diventa diverso, non so come spiegarti, non
tutti ce la fanno, esser un militare non basta. Hai paura, sì, lo sai
che fai cose illegali e puoi essere arrestato. E allora ti ripeti: ma sì
quelli son pirati, se possono ti uccidono e allora, chissenefrega,
spara.
Adesso vuoi sapere del nostro lavoro: quello normale è la
scorta sulle navi, una squadra di tre uomini sale armata e già questo è
al limite delle regole della navigazione. Guarda che non è uno scherzo.
Salire a bordo per esempio: i mercantili non rallentano per caricarti,
il tempo è denaro per gli armatori e allora accosti con un gommone una
nave che se è vuota naviga a quindici nodi e cerchi di tirarti su con
una scala di corda che ti gettano dalle murate alte come un grattacielo.
Se non sei attento e svelto il movimento delle onde ti inchioda tra la
fiancata e il barchino. Gambe fracassate, se sei fortunato.
Ma
quello è niente. Un giorno il capo, un inglese alcolizzato, ex Sas,
comincia a gridare: attivazione! Attivazione! Eravamo davanti a Merka si
vedevano le casette bianche. Eravamo dunque armati in acque
territoriali somale. Qui incrociamo altri barchini dei pirati, più a
nord ci sono quelli di Eyl che si fanno chiamare «guardacosta somali» e
quelli di Haradere, i «marines somali». Che stronzi. Allora:
attivazione! Ve la facciamo vedere noi, marines.
Prendiamo le armi
e corriamo alle murate. Davanti a noi c’è una piccola imbarcazione,
sembra un peschereccio, i colori squamati dal tempo. Pirati? Non so come
ne fossero certi, erano in contatto radio con la centrale della
compagnia, può darsi che quelli abbiano informazioni. Comunque chi li
conosce? All’ordine cominciamo a sparare all’impazzata. Per questo ci
pagano, no? In mare il colpo singolo lo dimentichi, i cecchini se li
mangia il movimento delle onde. Quello che devi fare è scaricare trenta
colpi, tutto il caricatore, a raffica, senza prender fiato.
Dal
barchino mi pare che rispondano al fuoco, sì, sono colpi che fanno
risuonare le fiancate della “Ohio”. Ma dura poco, ormai il battello
somalo è così sforacchiato che si è inclinato. Non si vede più nessuno.
Fine. «Tutti sotto coperta - grida l’inglese - tutti sotto coperta
branco di fottuti. Non so: forse non vuole che assistiamo al controllo
dei morti. E al dopo: il fuoco o un buco nella stiva per far affondare
il battello. Non bisogna lasciar tracce. Tre volte abbiano attaccato i
«pirati».
Una volta, da lontano, prima di sparare mi è sembrato
che sulla barca si agitassero dei ragazzini. “Ferma”, ho detto a un
altro estone che stava accanto a me, non sparare, sono bambini. “Idiota,
non sai che i somali addestrano i ragazzini alla pirateria spedendoli a
fare da esca controllando se le navi sono armate? Spara prima che ti
ammazzino loro”.
Una notte il capitano era ubriaco: ha cominciato a
gridare andiamo a divertirci un po’. Abbiamo virato verso terra, si
vedevano luci sulla costa poi una più piccola in mare che ondeggiava al
moto delle onde. Abbiamo iniziato a sparare come se fossimo pazzi,
caricatori su caricatori, gridavamo come belve, come se su quella barca
ci fossero tutti i guai e i fantasmi della nostra vita. Spero fossero
davvero pirati perché non è rimasto molto di loro. La lucina si è
spenta. Silenzio».