Repubblica 26.11.16
Ermete e Platone così gli italiani inventarono l’Umanesimo
Un saggio di Massimo Cacciari ci fa riscoprire il pensiero dei nostri filologi, da Valla a Ficino
di Alberto Asor Rosa
Ci
sono libri che ricostruiscono il nostro passato, arricchendone la
memoria. E ci sono libri che ricostruiscono il nostro passato,
rovesciandone la memoria, gettando lo sguardo più in profondità, dove le
vecchie categorie servono ormai a poco o niente, prospettando la
possibilità di una luce che, ripartendo dalle nostre radici, arriva a
illuminare il nostro presente. Non v’è ombra di dubbio che a questa
seconda categoria appartenga l’ultimo dei Millenni Einaudi, recentemente
apparso: “Umanisti italiani. Pensiero e destino” a cura di Raphael
Ebgi, con un saggio di Massimo Cacciari. Gli “umanisti”, com’è, o
dovrebbe essere, noto, sono quel gruppo, numeroso e variamente
inclassificabile
di intellettuali — filosofi, filologi, letterati, poeti e artisti —
che, ricollegandosi più direttamente al passato classico, e assumendone
variamente le lingue, il latino e il greco, improntano di sé tutta la
cultura italiana del secolo XV: prima, com’è accaduto spesso nella
nostra storia, facendo perno su di una indiscutibile capitale come
Firenze; poi ramificati e diffusi sull’intero territorio nazionale, da
Palermo a Napoli agli stati padani fino, in un fulgore finale trionfale,
a Venezia. Rispondono ai nomi, solo per citare i più eminenti, di
Leonardo Bruni, Poggio Bracciolini, Giannozzo Manetti, Lorenzo Valla,
Leon Battista Alberti, Giovanni Pico della Mirandola, Ermolao Barbaro,
Angelo Poliziano, Marsilio Ficino… Su questa complessa materia Massimo
Cacciari interviene con ammirevole profondità e chiarezza. Spiace
limitarsi a pochi accenni nell’ambito di una recensione giornalistica.
Ma vediamo.
Il saggio di Cacciari, che porta il titolo
significativo di Ripensare l’Umanesimo, si dirama in molteplici
direzioni, ma centrale, e decisivo, secondo me, è il punto contenuto e
sviluppato nel terzo paragrafo: Philophica Phlologia. E cioè: la fama
acquisita dagli umanisti in campo filologico — come rinnovamento e
approfondimento dell’analisi dei misteri della lingua, dello stile e
delle varie forme dell’espressione culturale ed artistica — è stata
universalmente e in ogni tempo riconosciuta e valorizzata. Ma è un
limite, se non addirittura un errore, fermarsi qui. Perché la filologia
umanistica italiana non sarebbe così acuta e penetrante nelle analisi
stesse che costituiscono, secondo la tradizione, il campo privilegiato,
anzi esclusivo, del suo operare, se essa non provenisse da una fonte più
profonda dell’essere, quella, appunto, che solo Sophia può investigare e
definire. Più esattamente in Cacciari: «Ciò significa che il valore di
ciò che Filologia possiede si esprime pienamente… soltanto allorché
Filologia inizia il cammino con Filosofia in supera, soltanto nel
momento in cui desidera ardentemente l’immortalità… ». Ossia: «Filologia
resterebbe cieca senza orientarsi attraverso la fatica dell’esegesi a
Filosofia, senza osare spingersi, guidata da Ermete, verso i “misteri di
Platone”».
Questo rapporto-scambio ininterrotto è la porta aperta
attraverso la quale una diversa, più profonda e inalterabile comunione
tra le discipline letterarie, le arti (vedi il ruolo qui attribuito a
Leonardo da Vinci) e il pensiero, può essere stabilita e mantenuta. A
una dialettica dei diversi può subentrare il dominio (pressoché divino)
di uno scambio reciproco senza fine, al quale non si vede perché mai si
dovrebbe rinunciare. Ancora Cacciari: «Filosofia, Filologia, Ermete
rimangono figure distinte, eppure soltanto il loro rapporto consente di
conoscere davvero la cosa. Non si ritorna alla cosa se non attraverso la
loro relatio, quel logos che raccoglie in unità i loro distinti metodi
».
Dovrei ora entrare nel merito delle molteplici direzioni
d’indagine, cui la prospettiva cacciariana apre le porte (eloquentemente
accennate, peraltro, nei titoli dei due paragrafi successivi a quello
qui in precedenza sommariamente riassunto: Umanesimo tragico e La pace
impossibile). Poiché qui tuttavia non posso farlo distesamente,
preferisco continuare a mantenermi sulle generali. Per esempio.
Impostate così le cose, il processo di elaborazione e formazione
dell’Umanesimo allarga a dismisura i suoi confini. Da una parte (e
anch’io precisamente su questo punto sono intervenuto più volte nel
tentativo di far chiarezza), arriva fino a Dante, il Dante del De
vulgari eloquentia, s’intende, ma anche quello della celestiale
Commedia; dall’altra si spinge fino a Machiavelli (e non solo, ritengo,
per i Ghiribizzi al Soderini, qui antologizzati) e a Guicciardini (che
però costituisce secondo me un caso a parte), e, più avanti, fino a Vico
a Leopardi («Un’amicizia stellare lega Alberti e Leopardi»).
Ancora.
Colpisce, come spesso capita in Cacciari, l’oltranza di certe sue
affermazioni. Per esempio, il “ridimensionamento” (non saprei definirlo
altrimenti) del celebratissimo Erasmo da Rotterdam a confronto di alcuni
dei più spregiudicati e profondi tra gli umanisti italiani, per esempio
Lorenzo Valla: «Erasmo, ammiratore incondizionato del Valla filologo,
riprenderà anche molti temi del suo epicureismo e della sua polemica
contro l’ascetismo religioso, “imborghesendone” tuttavia alquanto la vis
polemica… ». Cito questo esempio erasmiano, particolarmente
significativo, per segnalare quali conseguenze potrebbe portare anche
sul piano della storia della cultura europea, e non solo italiana, la
prospettiva cacciariana ove fosse adottata e approfondita.
Questo
ragionamento, e il discorso che se ne ricava, sarebbero stati forse
destinati a rimanere un po’ sospesi per aria, se non fossero
accompagnati da una ricchissima antologia degli autori più direttamente
chiamati in causa, impeccabilmente curata da Raphael Ebgi. Ricordo
almeno questo. A ognuna delle otto sezioni in cui l’antologia è divisa,
Ebgi ha premesso un’introduzione, la quale, più che riprendere, almeno
nella maggioranza dei casi, il discorso cacciariano, sviluppa in maniera
autonoma analisi e valutazioni, attentissime soprattutto alla lettera
dei testi.
Naturalmente — lo dico senza ironia — un’impostazione
del genere, rigorosamente perseguita, non poteva questa volta non
lasciare in secondo piano, l’altro lato del problema. E cioè la
decisiva, profonda, ineliminabile influenza, che, passando attraverso la
ricostruzione del classico e delle sue forme, doveva portare di lì a
qualche anno al trionfo della civiltà rinascimentale italiana, vale a
dire al completamento di quel colossale “ciclo delle origini”, che da
Dante, passando (appunto) attraverso l’Umanesimo, arriva fino ad
Ariosto, e lì si ferma (con la ripresa difficile e dolorosa di Torquato
Tasso, e che avrebbe voluto rimettere insieme tutto, e non ci riuscì, né
poteva riuscirci).
Un solo punto, forse, di questa materia,
avrebbero potuto i due autori di questo così ricco volume mettere fin
d’ora in piena luce, del resto del tutto coerentemente con le loro
premesse e il loro ragionamento, e cioè la forma dei testi, di cui
trattano. Non è difficile accorgersi che sono tutti, o quasi tutti,
dialoghi o lettere o responsive, polemiche o no: cioè ubbidiscono in
primo luogo alla sovrana legge della comunicazione e dello scambio.
Appunto. Come avrebbe potuto essere altrimenti? Una filologia-filosofia,
come quella che Cacciari ed Ebgi descrivono, è destinata peculiarmente
ad assumere una forma comunicativa o dialogica. Gli umanisti hanno dato
ragione ai due autori anche da questo punto di vista.
IL LIBRO
Umanisti italiani. Pensiero e destino (Einaudi, a cura di Raphael Ebgi e
con un saggio di Massimo Cacciari, pagg. 555, euro 85)
L’INCONTRO
Il libro viene presentato mercoledì alle 17,30 a Roma, all’Istituto
Enciclopedia italiana, da Alberto Asor Rosa, Raphael Ebgi, Massimo
Cacciari