Repubblica 26.11.16
Caro scrittore insegnami l’arte di morire
Il senso della fine svelato dalle pagine dei classici
Dall’“Ivan Il’ic” di Tolstoj alle parole di Albert Camus passando per “I fratelli Karamazov” di Dostoevskij
di Gianni Clerici
L’unica
certezza di questa nostra esperienza di vivere, è che la vita finirà.
Mi sono accinto alla lettura di “Una cura per il medico maleducato” di
Francesco Tatarelli (Franco Angeli editore) per la viva curiosità di
quanto mi accadrà, e perché l’autore cita via via libri e vicende
personali di grandi scrittori, che ho letto quasi tutti, da lettore non
professionista ma accanito. La dedica
della prima parte del libro è
addirittura rivolta a qualcuno che mi pareva più esperto di decessi
rapidi e violenti che di malattie in corso, Georges Simenon. Simenon
invia un augurio «A tutti coloro – professori, medici, infermieri – che
negli ospedali cercano di soccorrere l’essere più sconcertante del
mondo, l’uomo ammalato». Segue subito un riferimento a Tolstoj, La morte
di Ivan Il’ic, nella traduzione di Tommaso Landolfi. In che modo Ivan
tentava di liberarsi dall’idea della morte? «Aveva il suo ufficio, in
quel mondo era concentrato per lui l’interesse dell’esistenza… e
soprattutto la padronanza che aveva delle sue cose».
Una vita
simile a quella di molti viene sorpresa da un improvviso dolore, che
costringe Ivan a consultarsi con un medico e a chiedergli «In
definitiva, è cosa grave o no?» per sentirsi rispondere: «Vi ho già
detto quanto stimavo necessario. Al resto provvederanno ulteriori
esami». Ivan si trova d’un tratto «sull’orlo del precipizio, senza
nessuno che potesse capirlo e compatirlo». Ed ecco, nell’apparire del
pensiero della morte, «i suoi ricordi divengono simili alla vita di un
altro», sinché, in quel tentativo di trasferire l’angoscia, entra
l’improvviso aiuto di un servo, Gerasim, presenza fin lì più che
secondaria in una vita importante, dal quale «gli sarebbe piaciuto di
essere accarezzato, baciato, come si accarezzano e si consolano i
piccini».
Insieme a questa consolazione, ecco che la vita appare
al morituro «un enorme e spaventoso inganno », di cui Tatarelli ci dice:
«Ora non accadrebbe. Laddove il servizio di psicologia esista, è
delegato a dare spiegazioni e sostegno emotivo». Ancorché, fino a pochi
anni fa, l’aiuto veniva da quella che si poteva chiamare Ars moriendi,
ora sostituita da una – si spera – consolante Ars mortem evitandi.
La
cultura dominante nel mondo occidentale è, dunque, in pratica,
portatrice della cancellazione della morte. «Allora – commenta Tatarelli
– può scattare l’odio disperante per l’esistenza, oppure la necessità
spesso illusoria, ma benefica, di riscriversi, in altri termini
reidentificarsi ». Questo è tanto vero che accadde anche a chi scrive,
il giorno in cui, per una malattia contratta in un torneo di tennis
orientale, fu costretto in ospedale, e ricevette una diagnosi senza
speranze da un illustrissimo esperto di infezioni. Ho usato
involontariamente la terza persona, e la lascio, incredulo che ancora
non sia in grado di scrivere in prima, per una vicenda che sono riuscito
a sfuggire non solo grazie a un medico più avvisato, ma ad una “ars
moriendi “ chiamata religione.
Simile divagazione dice quanto il
libro sia avvincente, perché riesce a parlarci di vicende che non
possiamo sfuggire, e dell’opinione che suscitano in uomini per altro
super intelligenti, quali gli scrittori visitati, almeno sulla pagina,
da Tatarelli.
Nel continuare il mio riassuntino, mi pare il caso
di citare nientemeno che Dostoevskij, e il suo I fratelli Karamazov, del
quale più di un vero recensore ha parlato «come di un testo per
eccellenza religioso, pure nella complessità della questione della
libertà e del mistero del male». Figlio di un medico, Fëdor non è quindi
giunto per caso ad una vicenda che sta verso la fine del libro, quella
che riguarda il processo giudiziario, in cui l’imputato Mjtja è accusato
di aver ucciso il padre. Dei tre medici chiamati a giudicarlo prevale,
per la sua umanità non solo professionale, il vecchio dottor
Herzenstube, che vent’anni prima aveva regalato a un bambino scalzo, ora
l’imputato, un etto di nocciole. Simili vicende, scrive Tatarelli, non
sono insolite nei tribunali, dove prevale, a volte, come annota
Dostoevskij, una sorta di orgoglio professionale che giudici e
soprattutto periti antepongono alla compassione e al rispetto per la
morte. Questo accenno alla tenerezza lo ritroviamo in uno scritto di
Albert Camus, quando ci dice che «un mondo senza amore è un mondo morto,
e giunge sempre un’ora in cui ci si stanca delle prigioni, del lavoro,
del coraggio, per reclamare invece il volto di un essere umano, e il
cuore meraviglioso della tenerezza». Alla fine, dopo infinite citazioni
di uno che ha letto molto, questi ci dice: «C’è quasi sempre nella vita
qualcuno che ci cura. Come ormai è forse chiaro può essere sufficiente
la semplice cura ( to cure in inglese) ma più spesso c’è la necessità di
prendersi cura ( to care) cioè di una vera relazione d’aiuto». E
conclude.
Nel brano del buon samaritano, Luca, il medico
evangelista indica due diversi momenti: «Gli si accostò, curò le sue
ferite versandogli olio e vino. Poi, fattolo salire sul suo giumento, lo
condusse all’albergo, ed ebbe cura di lui». Vorrei essere riuscito a
soddisfare gli obiettivi di questo libro, al quale pensavo da molti
anni, termina Tatarelli. Credo ci sia riuscito, almeno per quelli che,
come me, non dimenticano di dover morire.
IL LIBRO Una cura per il medico maleducato di Roberto Tatarelli ( Franco Angeli pagg. 176, euro 23)