sabato 26 novembre 2016

Repubblica 26.11.16
I poteri intoccabili
di Marco Ruffolo

PENSAVAMO di poter giudicare d’ora in poi i dirigenti pubblici sulla base dei risultati raggiunti. Di poter legare le loro carriere e i loro premi (oggi dati a pioggia) alle performance realizzate. Pensavamo di poter costringere le Regioni a chiudere la marea di società inutili, o utili solo a distribuire poltrone. Mettiamoci l’animo in pace. Non accadrà nulla di tutto ciò. La Consulta ha messo una pietra sopra la riforma della pubblica amministrazione.
ERA uno dei pilastri del programma di Renzi e se ne è salvata solo una piccola parte: quella sulla digitalizzazione. A questo punto sarà molto difficile che il governo possa rimetter mano a delega e decreti attuativi. Cadono le norme sulla dirigenza, sul pubblico impiego e su partecipate e servizi pubblici locali. Cadono perché il governo le ha approvate solo con il “parere” delle Regioni e non raggiungendo l’“intesa” con loro. Le materie toccate dalla riforma Madia sono infatti in gran parte di competenza regionale o mista Stato- Regioni, come nel caso della sanità e della finanza pubblica. E dunque il governo non poteva decidere da solo. Si apre ora uno scenario estremamente complesso che per forza di cose incrocia l’esito del referendum sulla riforma costituzionale, e alimenta una polemica già incandescente. «Siamo un Paese bloccato, siamo circondati da una burocrazia opprimente», commenta Matteo Renzi. E Renato Brunetta, identificando il bersaglio del premier nella Consulta stessa, si appella scandalizzato al capo dello Stato. Poi Palazzo Chigi spiega: la critica era alle Regioni.
Non è certamente la prima volta che la Corte Costituzionale interviene in un contenzioso tra Stato e Regioni. Dal 2001 i suoi giudizi su questo tipo di conflitti sono passati dal 5 al 40% del totale. Perché? Tutto comincia quindici anni fa, quando per arginare la poderosa onda federalista scatenata dalla Lega, il centrosinistra, allora al governo, cambiò la Costituzione togliendo allo Stato una lunga serie di competenze esclusive e obbligandolo a condividere la maggior parte delle decisioni in condominio con le Regioni. “Competenza legislativa concorrente”: così venne chiamato questo infernale meccanismo. Lunghissimo l’elenco delle materie: dal commercio estero alla tutela del lavoro, dall’istruzione alle professioni. E ancora: tutela della salute, ricerca e innovazione, ordinamento sportivo, protezione civile, alimentazione, governo del territorio, energia, grandi reti di trasporto, porti e aeroporti, casse di risparmio, beni culturali e ambientali, previdenza complementare e persino il coordinamento della finanza pubblica. In tutti questi campi il governo non poté più agire da solo. Come era prevedibile, al posto dell’agognata collaborazione è cominciata una guerra senza quartiere fatta di ricorsi e contenziosi. E tra un contenzioso e l’altro, l’azione riformatrice dei governi è rimasta spesso sospesa. Aspettando che i giudici si esprimessero. Dal 2002 al 2014, 500 sentenze a favore delle Regioni, 475 contro.
Innumerevoli le misure governative bocciate. Quelle che trasferivano fondi alle Regioni senza il loro consenso per scopi particolari, come fare asili nido, o procedere alla difesa del suolo o alla manutenzione degli edifici scolastici. Quelle che acceleravano opere pubbliche ponendo un limite di 60 giorni ai tentativi di intesa con le Regioni interessate. O ancora quelle che ponevano un freno agli sprechi della finanza locale, pretendendo dai governatori una relazione con le misure anti-spreco realizzate. In tutti questi casi i giudici della Consulta hanno dichiarato illegittimi i provvedimenti dei governi per le stesse ragioni che hanno ispirato la sentenza di ieri. Poco importa se l’intesa con le Regioni non si trova, il fattore tempo non è considerato importante. Ecco cosa dice una sentenza di illegittimità di fronte a una legge statale che dava 60 giorni di tempo per trovare l’accordo: «La disposizione prevede quale unica condizione per l’adozione unilaterale dell’atto il semplice decorso del tempo», e «prescinde completamente dal principio di leale collaborazione». Come dire che l’obbligo di collaborare non può avere limiti di tempo. Non importa se nel frattempo cittadini e imprese non hanno più alcun riferimento legislativo certo per prendere le loro decisioni.
Cosa fa adesso la riforma costituzionale che andremo a convalidare o a spazzare via il 4 dicembre? Prende tutte quelle competenze che oggi vengono esercitate “in condominio” e le attribuisce in esclusiva allo Stato. Il che ci consegnerebbe sicuramente un quadro più certo e allargherebbe notevolmente i margini di manovra del governo, restringendo tuttavia in alcuni casi, come nell’istruzione universitaria, gli spazi di autonomia interna.