Il Sole 26.11.16
Sì o No, l’Italicum va cambiato
di Franco Debenedetti
«Il
referendum italiano ha le chiavi del futuro dell’euro», titolava giorni
fa il Financial Times. Tanto rapida e profonda è stata la rivoluzione
che Donald Trump - meno di tre settimane dall’essere proclamato
vincitore e più di dodici dall’essere insediato presidente, prima di
aver scelto i suoi collaboratori e lungi dal potere compiere atti di
governo - con le sue sole parole ha prodotto nel quadro mondiale. Se i
banchieri centrali hanno “l’arte della parola”, come sostiene Alberto
Orioli nel suo ultimo libro, i politici a volte hanno il “potere della
parola”.
Nel mondo è l’Europa, più degli altri, ad accusare il
colpo: dopo l’inaspettata vittoria convoca in fretta e furia una
riunione dei capi di governo per cercare una linea comune, e non riesce
neppure a metterli tutti intorno al tavolo. È il vincitore del Brexit,
Nigel Farage, il primo ad andare a congratularsi. «America first», dice
Trump: la sua scelta solipsistica chiude un periodo di 70 anni in cui
gli Usa sono stati i garanti di un ordine economico mondiale. Adesso
potrebbero anche uscire dalla Nato, e questa comunque non assicurerebbe
più automaticamente la difesa degli stati baltici. L’Europa dovrà
provvedere con i propri mezzi alla sua difesa; Putin è un interlocutore
come gli altri; la Crimea è un fatto compiuto; il Regno Unito fa bene a
lasciare l’Europa. E quanto all’euro, è «un’idea» che non ha mai amato.
Trump non è un populista, ma lo scetticismo dichiarato sull’euro, il
rigore esibito contro gli immigrati, la critica alle sanzioni per
l’Ucraina ne fa l’idolo dei populisti: se per Trump la sua vittoria è
una Brexit cinque volte, per Grillo è un vaffa smisurato.
E così
si arriva al referendum. I due partiti – oltre il 40% dell’elettorato -
che incitano a votare contro la riforma fanno dell’uscita dall’euro il
cardine del loro programma politico: la vittoria del No sarebbe quindi
un’ulteriore spinta a scardinare gli equilibri su cui si basano
costruzione comunitaria e moneta comune. È questa eventualità, aggiunta
alla dimensione della nostra economia, al nostro debito smisurato,
all’estensione del nostro perimetro esposto alla migrazione africana, a
ispirare l’allarmismo di quel titolo.
La vittoria del No
significherebbe ben di più del rigetto, per lustri a venire, di ogni
modifica costituzionale significativa. Come già ebbi a dire, l’obiettivo
della riforma - «sapere il giorno dopo il voto chi governerà per i
prossimi cinque anni» - è passare da un sistema in cui è in Parlamento
che si formano e si disfano i governi, a uno in cui sono i cittadini a
scegliere da chi farsi governare. Cioè passare dal proporzionale al
maggioritario. La pretestuosa polemica sul “disposto congiunto” ha
oscurato questo senso complessivo della riforma: senza una legge
elettorale maggioritaria le riforme costituzionali servirebbero sì a
migliorare l’efficienza di governi, ma non eliminerebbero debolezze e
labilità intrinseche al sistema di democrazia parlamentare. L’avevano
previsto dai padri costituenti, l’hanno confermato i nostri 63 governi
in 63 anni.
Se vincesse il No, avrebbe vinto chi non vuole
cambiare la Costituzione, chi non si preoccupa di avere governi più
stabili e più efficienti: il suo sistema elettorale è il proporzionale. A
riscrivere la legge elettorale almeno del Senato, c’è già il
Consultellum, proporzionale col marchio di costituzionalità. Grillini e
salviniani non avrebbero la maggioranza in Parlamento, né la vorrebbero:
per crescere gli basterebbe assistere al succedersi di governi deboli,
in equilibri precari. È l’incapacità di siffatti governi di riformare la
struttura del nostro sistema produttivo all’origine dell’impressionante
perdita di produttività che abbiamo accumulato negli ultimi vent’anni.
Andando avanti per questa strada, a provocare l’uscita dell’Italia
dall’euro non sarebbe il drammatico errore di forze politiche, ma
l’inesorabile conseguenza dell’incapacità di riformarsi.
Anche se
vince il Sì bisognerà metter mano alla legge elettorale che consenta a
governi stabili di essere anche più efficienti. L’Italicum male si
adatta a un elettorato ormai tripolare, e chi ha chiaro quale catastrofe
sarebbe l’uscita dall’euro ha il dovere di evitare il rischio di
consegnare la chiave del Paese a chi di ne fa il punto centrale della
propria propaganda, e Governo e maggioranza si sono impegnati con atti
parlamentari a metter mano all’Italicum dopo il referendum. Come? C’è un
modello convalidato da 200 anni di esperienza nella più antica delle
democrazie, l’uninominale di collegio a turno unico: premia i partiti
che hanno buoni candidati, e questo è di per sè un bene, obbligherà
anche i 5S ad avere candidati presentabili, e quindi più attenti a non
fare scemenze. Inoltre stabilisce un rapporto diretto e duraturo tra
parlamentare ed elettorato. Impegnativo per i candidati, in campagna
elettorale e durante il mandato, come ricorda chi lo sperimentò nella
seconda parte degli anni ’90, ma capace di dare soddisfazioni, e senso
all’impegno.