Il Sole 26.11.16
Il pasticcio del Titolo V
di Gianni Trovati
Per
riformare le regole su dirigenza e dipendenti pubblici, servizi locali e
partecipate serve l’«intesa» con regioni ed enti locali: il «parere»,
che non dà potere di veto alle singole amministrazioni, non basta. Lo
dice l’attuale Titolo V della Costituzione, e ieri lo ha ribadito la
Consulta.
Molto si può dire della sentenza costituzionale piombata
ieri sulla delega Madia, tranne che sia giunta inaspettata a tutti. Fra
i tecnici del governo c’era stata a suo tempo una discussione sulla
necessità di prevedere l’intesa con le autonomie al posto del parere, ma
alla fine era prevalsa la linea più “risoluta”. Peccato, però, che
Costituzione alla mano questa linea si sia rivelata inefficace, e apra
ora un’incognita pesante sulle sorti di parti importanti dell’attuazione
della riforma della Pa. A otto giorni dal voto, la vicenda riporta la
luce su uno dei temi referendari più importanti, anche se oscurato da
una campagna elettorale che ha preferito parlar d’altro. In gioco non
c’è la Costituzione dei padri della Repubblica, ma la parte vergata più
modestamente dai loro figli nel 2001, quando il centrosinistra pensò di
usare la Carta per intestarsi le parole d’ordine del federalismo e
dell’autonomia portate da una Lega allora arrembante al centro del
dibattito politico.
I risultati elettorali si incaricarono di
mostrare subito che quel tentativo aveva il fiato corto, ma ci pensarono
poi l’economia, il fisco e il conflitto permanente fra Stato e Regioni a
spiegare in modo più strutturale gli effetti di quella scelta sulle
chance di riformare il Paese. Di quel conflitto, che in 15 anni ha
prodotto migliaia di sentenze sui temi più disparati, la sentenza di
ieri rappresenta solo l’ultimo, pesante risultato.
Il problema,
ovviamente, non è la Corte costituzionale, ma un sistema di rapporti fra
Stato e autonomie locali mai chiarito fino in fondo, che moltiplica il
lavoro di giuristi e avvocati ma rischia di azzoppare le opportunità di
molti altri. Per capire il nodo, ora affrontato dalla nuova riforma del
Titolo V, basta osservare l’ultima contesa: che cosa cambia, sul piano
pratico, fra il «parere» e l’«intesa»?
La differenza sostanziale
risiede nel fatto che il parere è “collettivo”, mentre l’intesa richiede
l’unanimità delle regioni, e offre quindi un potere di veto a ogni
singola amministrazione intenzionata a opporsi per motivi tecnici o
politici. In questo modo le regioni finiscono per avere sui decreti
attuativi un peso maggiore dello stesso Parlamento, al quale il governo
chiede un parere e al massimo poi spiega perché non ne ha tenuto conto.
Anche se l’«intesa» manca, in realtà, il governo può andare avanti con
delibera motivata passati 30 giorni, com’è accaduto anche recentemente,
ma questa clausola che funziona tranquillamente su argomenti “minori”
crea sconquassi su questioni più politicamente delicate, soprattutto
quando entrano direttamente nelle loro competenze centrali.
La
storia dei molteplici inciampi costituzionali incontrati ad esempio dai
tanti tentativi di riforma dei servizi pubblici locali, colpiti anche
dalla nuova pronuncia, insegna che un sistema di questo tipo finisce per
rivelarsi un elastico in grado di riportare alla casella di partenza
tutti i tentativi di intervento. Quando i temi riguardano competenze
locali, ovviamente, le riforme non si possono fare contro le regioni e i
comuni: ma senza rapporti più chiari, e una camera di compensazione e
di rappresentanza unitaria, compito non semplice intestato al nuovo
Senato, si rischia di incrinare il confine fra democrazia e anarchia.