La Stampa 26.11.16
Statali, l’accordo con i sindacati adesso rischia di saltare
Camusso (Cgil) attacca: vogliamo almeno 85 euro di aumento
Ma il governo replica: non abbiamo tutti quei soldi per i contratti
di Alessandro Barbera Carlo Bertini
Che
fare? Cavalcare la sentenza della Consulta e gli argomenti a favore del
sì al referendum o chiudere l’accordo sul contratto degli statali? In
queste ore Matteo Renzi è di fronte a un dilemma. Ieri Marianna Madia ha
convocato per mercoledì i leader di Cgil, Cisl e Uil. Obiettivo:
chiudere l’accordo politico e spianare la strada agli aumenti nei primi
mesi del 2017. La trattativa va avanti da tempo e le risorse ci sono: la
legge di bilancio prevede 1,9 miliardi di euro nel solo 2017. Fino a
ieri - raccontano i ben informati - l’intesa era a portata di mano: i
sindacati avrebbero potuto sventolare il primo rinnovo dopo sette anni
di blocco, Renzi il sì ad altri 80 euro per più di tre milioni di
famiglie che il 4 dicembre avranno fra le mani la famigerata scheda del
referendum.
La sentenza che ha parzialmente bocciato la riforma
del pubblico impiego ora pone almeno un paio di problemi. Il primo è
squisitamente tecnico: la pronuncia tocca aspetti contrattuali dei
dirigenti che dovranno essere rivisti. Impossibile farlo in tempi
rapidi: alcuni decreti di attuazione della riforma andranno riscritti o
quasi. L’altro nodo è politico, e lo si intuisce dalla reazione di Renzi
alla sentenza. La bocciatura, figlia di un ricorso del Veneto di Luca
Zaia, è un’occasione ghiotta per portare acqua al mulino del sì. A far
pendere la bilancia di Renzi da una parte o dall’altra sarà decisivo
l’atteggiamento della Cgil, la quale a sua volta ha di fronte a sé un
dilemma: se scegliere il vantaggio politico di cavalcare le ragioni del
no - e contribuire così alla spallata al premier - o quello
squisitamente sindacale, che imporrebbe a Susanna Camusso di chiudere la
trattativa. La scommessa è rischiosa, perché in caso di vittoria del no
al referendum le probabilità di un accordo entro la fine dell’anno
saranno ridotte al lumicino, vai poi a spiegare ai delegati del pubblico
impiego che era più importante abbattere il governo dell’odiato Renzi.
C’è
poi un terzo ostacolo all’accordo, ed è quello che nelle centrali
sindacali viene definita la «debolezza politica della Madia», azzoppata
dalla sentenza della Consulta. Poiché l’accordo con i sindacati si
tradurrebbe nella firma di un protocollo da trasformare solo
successivamente in vero e proprio contratto, la controparte sindacale si
chiede quale sarebbe il valore dell’intesa firmata - in caso di
vittoria del no - da un ministro in ogni caso dimissionario. Del resto
nella bozza in mano a governo e sindacati si toccano temi delicatissimi:
dal riequilibrio fra «legge e contratto», al sostegno ai redditi più
bassi, dalla flessibilizzazione degli orari alle nuove forme di welfare
aziendale.
Gli occhi sono tutti puntati sulla Camusso, che per il
momento sembra cercare la rottura. Di fronte alla proposta del governo
di aumenti medi da 85 euro, ieri la leader Cgil ha detto di «non capire»
cosa significhi. «Il ministro Padoan sa che i sindacati hanno chiesto
un aumento non inferiore agli 85 euro». La Camusso conosce bene i
numeri: considerando 3,3 milioni di dipendenti pubblici un aumento
minimo di 85 euro costerebbe al governo più di tre miliardi di euro.
«Soldi che non sapremmo dove trovare», risponde un esponente di governo
che chiede di non essere citato. Ma poiché la ragion politica potrebbe
aver la meglio, non è ancora detta l’ultima parola. Il viceministro al
Tesoro Enrico Morando ci scherza sopra: «Nella storia dei rinnovi
contrattuali dei pubblici c’è stato un solo caso in cui il governo
stanziò più di quanto i sindacati avessero chiesto: accadde con
Gianfranco Fini». Costò più di cinque miliardi di euro, fu il più
generoso dall’unità d’Italia, e forse anche per questo l’ultimo prima di
oggi.