venerdì 25 novembre 2016

Repubblica 25.11.16
Nel cantiere di Robinson sulla nuova isola di carta delle culture
Così le idee diventano carta
di Paolo Di Paolo

Il viaggio di uno scrittore dentro la squadra di Repubblica che crea l’inserto della domenica
FORSE bisogna avere un po’ di Novecento nel sangue per capire certe emozioni. O forse no: veder nascere una creatura di carta c’entra — da qualcosa come oltre cinque secoli — con i sogni più spericolati degli umani. È la nostra sfida giornaliera contro il tempo. Prima di arrivare in tipografia, c’è una storia segreta fatta di pomeriggi e serate lunghe, di corse, di acqua alla gola. Il cantiere di “Robinson”, il nuovo inserto culturale di Repubblica — in edicola domenica — è in pieno fermento. Potete immaginare: squillano i telefoni, arrivano mail a valanga; si inventa, si discute, si corregge. Tutto quello che uno si figura — o magari sogna — dell’avventura di un giornale: pagine che si fanno e si disfano, pezzi che arrivano corti o appena più lunghi, titoli da inventare, fotografie da scegliere. Tutto, a un certo punto, dovrà quadrare: sabato Robinson sarà pronto.
Con il suo nome da esploratore, farà da guida sull’isola della cultura. Molta curiosità e una bisaccia di domande: si può capire la vittoria di Donald Trump leggendo William Faulkner? Sì, se chiedi aiuto a una scrittrice leggendaria come Toni Morrison.
Serve a qualcosa una mostra su Van Gogh senza un solo quadro di Van Gogh? Melania Mazzucco è andata a farsi un’idea. Che cosa impariamo da una mappa del Duecento che fissa su carta il poco di mondo visibile accanto a quello invisibile? Alessandro Baricco, collezionista di mappe, si è messo a contemplarla.
Sull’isola in cui sbarca Robinson, c’è sopratutto una strada da fare. Quel tratto — non importa se in salita o in discesa — che consente di tradurre un’esperienza in conoscenza, in visione del mondo. L’esperienza, quella sì, è a portata di mano, senza ostacoli: un viaggio, un romanzo, un concerto, un festival, tutto è lì, si offre e soprattutto si moltiplica. Un inserto culturale — mi dice Valentina De Salvo, responsabile di
Robinson, «può aiutare a scegliere, ma anche — una volta che si è scelto — a interpretare ». Noto, sulla sua scrivania, nella pila di libri da cui ogni giornalista di cultura è assediato, un volume con un post-it giallo attaccato sulla copertina. Sul post-it giallo è disegnato un cuore. Le domando: è bello? «Bellissimo», mi risponde. «A me piace questo: parlare di libri. E credo che siano tanti ad avere la mia stessa passione, al di là di quanto solitamente si dice. Così, immagino un giornale che offra interlocutori speciali a lettori appassionati, e come per la letteratura così per la musica, lo spettacolo, il sapere scientifico». Mentre parliamo, arriva il pezzo di Marco Belpoliti, la storia sorprendente di Imre Toth, filosofo e matematico rumeno. “Colla, forbici e matematica”: il titolo nasce sotto ai miei occhi. Bisogna prendere confidenza con la nuova gabbia grafica: l’impianto elegante e arioso frutto del lavoro di Francesco Franchi. Designer editoriale trentaquattrenne, già parecchia esperienza alle spalle. La sua scrivania, per ora, è l’unica che vedo sgombra e ordinata. Accanto al Mac, un numero zero di Robinson: delibatore di font tipografici, come è giusto che sia, mi fa notare dettagli, innovazioni, recuperi. Gli chiedo, da coetaneo, che effetto fa occuparsi di carta: «Amo il giornale di carta e penso che, messo alle strette dal digitale, possa riscattarsi proprio se insiste sulla perfezione, se diventa un piccolo “lusso” che soddisfa la mente ma anche gli occhi, che dà gusto sfogliare, conservare, collezionare ». Prende in mano il numero zero, lo piega come se dovesse metterlo in tasca. Mi fa notare la finezza del colore di fondo della copertina: sarà ogni volta diverso. Angelo Rinaldi, vicedirettore e art director di
Repubblica, seduto alla scrivania di fronte, si alza e pesca tra diversi faldoni il più prezioso. «Ho comprato da un collezionista una serie di numeri zero di Repubblica.
Le prove grafiche del primo numero, gennaio 1976: non era innovativo solo il formato, ma anche la titolazione, molto più duttile di quella dei concorrenti. E la grande invenzione di Eugenio Scalfari di spostare la cultura dalla vecchia terza pagina al centro del giornale, nel famoso “paginone” che avrebbe fatto scuola e costretto gli altri a cambiare». Franchi, per il lavoro grafico su Robinson, è andato a sfogliare le annate degli inserti storici di Repubblica. Il primo, Weekend, è del 1977. Sotto la testata una stringa chiarisce “venerdì sabato domenica”. «Forse il concetto, allora, non era chiaro per tutti» sorride Franchi. Ho davanti la copertina del 28 ottobre 1977: Renato Guttuso spiega perché correre al Grand Palais di Parigi per vedere una mostra di Courbet. Accanto, un colonnino con l’agenda degli appuntamenti del fine settimana. La bussola settimanale del nuovo Robinson sarà all’inizio del giornale, una scelta di appuntamenti e occasioni dalla domenica al sabato, frutto delle segnalazioni di tutte le redazioni locali di Repubblica e di contributi d’autore (nel primo numero, c’è Maurizio Ferraris). «L’idea — mi spiega il direttore, Mario Calabresi — è stata chiara da subito: raccogliere l’eredità delle pagine della Domenica per rafforzarne e rinnovarne l’identità. Costruendo un settimanale di cultura che sta nel cuore di un quotidiano e si propone di recensire i consumi culturali: non solo libri, ma idee, oggetti, incontri, luoghi in cui la cultura si fa e si trova. La gestazione è stata lunga, volevamo che Robinson fosse una guida solida». La stanza di Calabresi ha le pareti fitte di opere di maestri della fotografia. Il primo numero partirà dai volti, dalle storie. Soprattutto dai luoghi americani per indagare l’elezione di Donald Trump.
È il momento di scegliere la fotografia che andrà in copertina, selezionarla fra quelle scattate nel viaggio a Cracovia di Wlodek Goldkorn, sulle tracce di Wislawa Szymborska. Roberto Saviano spiegherà come è stato possibile che questa poetessa polacca sia diventata una star — l’innesco lo diede lui stesso, leggendone versi in televisione.
In pieno spirito di Robinson: la cultura è dappertutto, si può costruire o cogliere ovunque un’occasione.
Gregorio Botta, mentre legge un pezzo di Michele Smargiassi, evoca Beniamino Placido.
Firma storica di Repubblica, un curioso di professione, uno che si disponeva alle occasioni con un’allegria da bambino, fino alla fine. «Volto nuovo e cuore antico», dice: la cultura è sempre stata al centro di Repubblica, l’eredità è impegnativa, va rimessa in gioco, reinventata. Al con Scalfari di quel Mercurio che è uno dei papà di Robinson. Dio della comunicazione e della leggerezza, si nutriva di firme diverse disposte a pensare al giornalismo culturale come a una specialità “quasi a sé”. Così mi dice Simonetta Fiori, che ha alle spalle della sua scrivania il primo numero di Mercurio, sabato 4 marzo 1989. Il faccione di Giorgio De Chirico disegnato da Tullio Pericoli, e accanto un breve editoriale in cui si evoca Calvino: ali ai piedi, leggeri e aerei, abili e adattabili e disinvolti, pronti a stabilire relazioni «tra le forze della natura e le forme della cultura, tra tutti gli oggetti del mondo e tra tutti i soggetti pensanti». La sfida resta quella. E se non ti diverti, cambia mestiere, ripeteva Ajello a giovani e meno giovani atleti della squadra di Mercurio.
Di sicuro è impossibile annoiarsi, mentre continuano ad arrivare gli articoli, il “timone” si completa, le recensioni vanno al loro posto, e ogni tassello di Robinson diventa il segmento di un unico racconto. Un racconto a cui carta e inchiostro danno una forma, forse addirittura — ancora — un senso. «La risposta al declino del vecchio giornale cartaceo può essere solo la bellezza”, conferma Calabresi — e intanto sfoglia, guarda, ferma il dito su un colore, su un’immagine. Robinson è a buon punto, ma la corsa non è finita.
È buio, esco dalla redazione ricordando la prima volta che ho avuto tra le mani il mitico New York Times della domenica. Domenica di luglio, piovigginava a New York: una autentica montagna di carta — non sapevo come tenerla fra le mani, l’ho portata con me come un vassoio di pasticcini. E d’altra parte, lo era. E mi dico che no, forse non c’è bisogno di avere un po’ di Novecento nel sangue, per capire certe emozioni. Veder nascere una creatura di carta c’entra ancora con i sogni più spericolati degli umani, con la voglia di lasciare una traccia, un solco, qualche segno nel caos del mondo. Con la voglia di capire qualcosa, di fermare qualcosa. Buon viaggio, Robinson.