Il Sole 26.11.16
Femminicidio, quei numeri che spalancano abissi
di Manuela Perrone
Tutti
i numeri spalancano mondi. Quelli sulla violenza degli uomini contro le
donne spalancano abissi. Non solo per la conta periodica delle vittime –
107 in un anno le donne morte in Italia per mano di un uomo - quanto
per due percentuali. Che raccontano, accanto alla questione femminile,
una questione maschile altrettanto urgente. Se non di più. Eccole, le
percentuali da tenere a mente: l’85% degli omicidi contro le donne in
Italia sono femminicidi, commessi dal partner, dal marito o da un
familiare. Il 47% delle donne uccise a livello mondiale, ha ricordato
l'Unicef, è stata ammazzata dal compagno o da un componente della
propria famiglia. Significa che la violenza, con il suo apice che è
l’omicidio, matura all’interno di relazioni tossiche. Vuol dire che
accanto alla questione femminile, di cui da più di mezzo secolo si
dibatte pubblicamente, esiste una questione maschile altrettanto potente
che è rimasta sepolta. E che investe la perdita di autorità degli
uomini davanti alle conquiste femminili in termini di lavoro, autonomia e libertà, e l’incapacità di elaborarla collettivamente, come hanno fatto le donne.
Ha
ragione da vendere il presidente della Repubblica Sergio Mattarella
quando ieri, in occasione della Giornata internazionale per
l’eliminazione della violenza contro le donne, ha sostenuto che «è una
ferita inaccettabile per l’intera società». Perché mina la salute delle
famiglie, colpisce le bambine e i bambini, vittime innocenti e
inconsapevoli, produce tossine nella comunità. Avvelena quei privati che
ormai i social e le tecnologie rendono pubblici. Per questo è grave
liquidare gli innumerevoli episodi che la cronaca riporta come fatti
privati, scatenati dalla follia o dalla gelosia. Per questo è un errore
parlare di “amori passionali” o malati. L’amore non picchia e non
uccide: quando accade, amore non è. «Quante donne sopraffatte dal peso
della vita e dal dramma della violenza!», ha scritto Papa Francesco su
Twitter. «Il Signore le vuole libere e in piena dignità». Il rovescio
della medaglia: quanti uomini che sopraffanno. Sulle donne che subiscono
violenza da anni i centriantiviolenza italiani svolgono un lavoro
prezioso, nonostante la cronica carenza di fondi. Sono nati progetti
virtuosi come Codice rosa, inventato in Toscana ed esportato altrove,
che punta sulla rete di ospedali, forze dell’ordine, associazioni,
centri dedicati e magistratura per aiutare le donne a uscire dalla
spirale della violenza.
«Non basta», è l’espressione che ieri
all’unanimità hanno usato operatori, esperti e politici. Non è
sufficiente, anche se i dati del Viminale raccontano di un lieve calo
dei reati contro le donne (-3% i femminicidi nel 2016). «La violenza
contro le donne non riguarda solo le donne, ma anche gli uomini», ha
sottolineato la ministra delle Riforme Maria Elena Boschi, che ha la
delega alle Pari opportunità. Riguarda i violenti, ma pure i tantissimi
non violenti, cui oggi spetta un compito fondamentale: prendere
pubblicamente le distanze dai violenti e proporre modelli sani,
alternativi, di mascolinità e di paternità. Uomini capaci di condividere
il lavoro di cura e le responsabilità, di impegnarsi in modo paritario
nell’educazione dei figli. Come? «Ci vuole un impegno più sottile, più
profondo e di lungo termine», ha osservato la ministra dell’Istruzione
Stefania Giannini. «L’unico strumento davvero efficace è quello di una
gigantesca sfida educativa». Che insegni il rispetto e combatta gli
stereotipi sin dall’infanzia: gabbie per le donne come per gli uomini.
Il premier Matteo Renzi ha definito la violenza contro le donne «un tema
fondamentale, imprescindibile, culturale, sociale e politico». Le
opposizioni, dalla Lega al M5S, hanno invocato «fatti». Giusto. Ma
contano anche le parole. La presidente della Camera, Laura Boldrini, ha
deciso di pubblicare alcuni degli insulti pesantissimi che ogni giorno
da anni riceve su Facebook e su Twitter: «Questa si può definire libertà
di espressione?». Poco dopo il vertice internazionale di Facebook le ha
chiesto un incontro. Il dilagare dell’”hate speech”, dei discorsi
d’odio, il cui bersaglio privilegiato sono le donne, è il sintomo di una
malattia più vasta. E più di ogni approccio securitario, è la
prevenzione la chiave per voltare pagina.