il manifesto 26.11.16
Le donne che ci hanno liberato
FilmFest
Torino. Nel film di Daniele Segre le biografie di partigiane dei
«Gruppi di difesa e assistenza» della Resistenza. «Il mio era il solo
salario che entrava in famiglia. Capii subito che la Resistenza era la
mia parte: per liberarsi dal regime, dai tedeschi, dalla guerra, ma in
primo luogo dalla fame»
di Luciana Castellina
Il
Filmfest di Torino garantisce sempre belle scoperte. Questa volta,
grazie al documentario Nome di battaglia: donna di Daniele Segre, il
bello sta nel film e nelle vite che racconta. Ma c’è anche un lato
brutto venuto alla scoperta: in 70 anni di studi storiografici sulla
Resistenza, non c’è niente di sistematico e completo sui «Gruppi di
difesa della donna e di assistenza ai combattenti».
Biografie (o
autobiografie) di singole partigiane ce ne sono, ma una vera complessiva
documentazione su cosa siano stati, quante e chi vi abbia partecipato,
cosa abbiano fatto, questa non è mai stata messa a punto. Un buco
storiografico enorme, che si riflette su tutta la straordinaria vicenda
della guerra di Liberazione, perché marginalizzare il ruolo avuto dalle
donne significa in qualche modo amputare l’intero fenomeno di una
specificità fondamentale: del connotato corale, sociale, ancor prima che
tradizionalmente militare, di quella lotta.
Si deve all’Anpi di
Torino, e alla sua attuale presidente, Maria Grazia Sestero, se, con il
convegno nazionale tenuto alla fine del 2015, dedicato a questa memoria
si è fatta finalmente luce su questa ennesima «distrazione» relativa
alla presenza delle donne nel mondo. Il film di Segre è una prima
correzione.
«Quel nome dei nostri Gruppi, che usa le parole
“difesa” e “assistenza”, non mi è mai piaciuto», confessa nel film sin
dalle prime battute Marisa Ombra (IX Divisione Garibaldi, operativa
nelle Langhe, già a 16 anni partecipe degli scioperi del marzo ’43; poi,
e a lungo – quando io l’ho conosciuta – dirigente dell’Udi nazionale e,
infine, vicepresidente dell’Anpi). Le donne, infatti, non si
difendevano né facevano le crocerossine: combattevano.
Lo
raccontano con semplicità, spiritose e grintose, otto donne piemontesi
protagoniste del film. Quasi tutte entrate nelle fila della Resistenza
in fabbrica, dove molte erano arrivate giovanissime. «Io, a 13 anni, e
dovetti falsificare i documenti perché per entrare ne avrei dovuto avere
14 – racconta Enrica Core – Adesso sono grassissima, ma allora ero un
fuscello e perciò mi chiamarono Fasulin. La prima volta che presi in
mano una mitraglietta cominciò a sparare in aria da sola che sembravo
una contraerea. Me la tolsero subito. Poi imparai». Fasulin è entrata a
Torino dal Monferrato alla testa della III Divisione Garibaldi il 26
aprile ’45.
«Io invece il mio nome di battaglia me lo sono scelta
da sola: quando arrivai in montagna c’era un omaccione che si era
ribattezzato Pantera. Allora io ho deciso di chiamarmi Tigre». A parlare
è Carla Dappiano, anche lei in fabbrica fin da quando aveva 13 anni,
alla Westnghouse. «Il mio – dice – era il solo salario che entrava nella
nostra famiglia, poverissima. Capii subito che la Resistenza era la mia
parte: per liberarsi dal regime, dai tedeschi, dalla guerra, ma in
primo luogo dalla fame».
Operaia-bambina pure Maria Airaudo.
Racconta di quando, nel ’40, tutta la popolazione del suo paese del
cuneese, proprio vicino al primo fronte, quello italo-francese, fu
chiamata ad adunarsi nel cortile della scuola elementare per ascoltare
la dichiarazione di guerra. «Non c’era nessuno, ma proprio nessuno che,
nonostante quanto si disse, abbia applaudito», ricorda. La sua guerra di
liberazione Maria l’ha fatta in Val Luserna. Ed è lì che è stata
ferita.
Nel marzo ’45 catturarono le due sorelle Vera e Libera
Arduino. Le portarono alla Caserma di via Asti e dopo averle
pesantemente torturate le fucilarono alla Pellerina. Ma il giorno
seguente, dopo che Carmen Nanotti, che operava nelle Sap (Squadre di
Azione Patriottica) era riuscita a dare la notizia, sul luogo della
tumulazione c’erano quasi duemila donne a salutarle. Scappate subito
dopo perché stavano sopraggiungendo i tedeschi. Carmen era francese,
arrivata in Italia («già comunista», dice ) solo a guerra cominciata, e
in fabbrica, le Carrozzerie Fiat, i compagni diffidavano di lei perché
temevano facesse finta di non sapere l’italiano per spiare i loro
colloqui.
Dalla Francia, perché figlia di un esiliato politico,
veniva anche Gisella Giambone. Rientrato in patria per combattere nella
Resistenza, il padre, membro del primo Comitato di Liberazione Nazionale
del Piemonte, fu fucilato al Martinetto nel ’44. «Ho sentito che dovevo
prendere il suo posto e sebbene avessi poco più di 12 anni i compagni
della brigata Curiel si fidarono. La mia età, anzi, fu molto utile,
nessuno sospettava che portassi armi e volantini in giro per la città».
Maddalena
Brunero, invece, la Resistenza l’ha incontrata in parrocchia, nella
Gioventù femminile dell’Azione Cattolica (anche questa organizzazione
aderiva ai Gruppi di difesa delle donne) di Settimo Torinese dove era
sfollata con la famiglia. La madre, operaia alla Manifattura Tabacchi,
metteva con le compagne una polvere micidiale nelle forniture di
sigarette destinate alle caserme tedesche. Madddalena trasportava armi e
volantini in città. Rosi Marino stampava il materiale clandestino con
un ciclostile che poi veniva nascosto in un buco del muro. «È ancora lì –
riferisce – potrebbe servire di nuovo». A lei i fascisti la presero e
si fece molti mesi di carcere. Finì meglio del previsto, perché fu
liberata grazie a uno scambio di prigionieri proprio alla vigilia della
Liberazione.
Non tuttte le protagoniste di questo straordinario
film sono potute venire alla proiezione: Carmen è morta che la pellicola
era stata appena finita di girare; Marisa, che abita a Roma, si è
ammalata. Fasulin non ce l’ha fatta ad arrivare dal Monferrato. Le
cinque novantenni arrivate all’appuntamento hanno fatto al meglio la
loro parte nel cinema affollatissimo, aggiungendo dettagli e battute di
spirito. Si erano vestite tutte con ricercatezza e persino con qualche
civetteria. Ma non serviva, se lo scopo era quello di apparire ancora
giovani. Bastava il loro modo di raccontare, i loro giudizi sul
presente, a farle apparire per quel che sono: non ex partigiane, ma
tuttora partigiane. «Noi eravamo e siamo arrabbiate – ha detto Carla
Dappiano – Ai ragazzi di oggi mi sembra manchi proprio la nostra
rabbia».