il manifesto 26.11.16
Non una di meno, in piazza in tutto il mondo
25 novembre. Non più vittime ma resistenti per dire basta al femminicidio
di Geraldina Colotti
«Debout
contre les violences faites aux femmes»: In piedi contro le violenze di
genere. Con questa consegna, un folto gruppo di associazioni e
collettivi femministi, francesi e immigrati, ha sfilato ieri a Parigi.
Il loro manifesto ricorda che, in Francia, ogni anno vi sono 86.000
stupri, ma solo l’1,5% viene condannato. Che 216.000 donne sono vittime
di violenze coniugali e 122 sono morte nel 2015. Scrivono le femministe:
«Viviamo in un paese in cui i discorsi populisti e reazionari aumentano
e vogliono far credere che chiudere le frontiere basterebbe a fermare
le violenze sulle donne; viviamo in un paese che partecipa a conflitti
armati che provocano massacri, violenze sessuali, stupri come arma da
guerra, sequestri, tratta, deportazioni e aumento della povertà».
Occorre, invece, dare priorità «alle trattative e alla partecipazione
delle donne ai processi di pace»: affinché il paese dei diritti
dell’uomo «diventi finalmente quello dei diritti della donna».
IL
10 DICEMBRE, per le Nazioni unite è la giornata dei Diritti umani. Fino a
quella data, Onu-femme ha lanciato la campagna «Orangez le monde: levez
des fonds pour mettre fin à la violence contre les femmes et les
filles» («tingete il mondo di arancione: per mettere fine alla violenza
contro le donne e le bambine ci vogliono fondi»). Le risorse per la
prevenzione e per garantire autonomia alle donne, sono però ancora
insufficienti. In Cambogia – registra l’Onu – il 70% delle donne ha un
lavoro precario. Oltre 500.000 lavorano nelle fabbriche tessili o di
calzature, ad alto tasso di sfruttamento. In Kirghizistan, le violenze
sulle donne e le minori e la pratica dei matrimoni forzati dopo un
sequestro, sono una triste realtà. In Mali, è tornato in piazza anche il
collettivo Halte aux Violence Conjugales (Hvc), coordinato da Ballo
Mariko: una rete di donne e uomini che ha esordito con una marcia contro
la violenza coniugale, a Bamako: per denunciare come la violenza sulle
donne abbia raggiunto «proporzioni inimmaginabili». Donne uccise dai
mariti in tutta impunità, a cui spesso giudici, medici e poliziotti
chiedono «cos’abbia combinato per farsi ridurre così».
NEL MAGGIO
2011, è entrata in vigore la Convenzione di Instanbul del Consiglio
d’Europa, volta a combattere la violenza contro le donne e quella
domestica. Uno strumento basato su 4 pilastri: prevenzione, protezione,
procedure legali e politiche integrate. Tuttavia – denuncia l’Arci – le
disposizioni sono disattese e le politiche nazionali non sono allineate
ai dettati della Convenzione. La Rete Euromediterranea dei Diritti Umani
– un network di organizzazioni sociali europee, del Nord Africa e del
Medioriente, di cui l’Arci fa parte -, segnala «la mancanza di servizi
accessibili per le vittime, la larga impunità, la carenza di formazione
fra gli operatori di settori importanti – inclusa la polizia e il
sistema giudiziario».
I DATI RESTANO ALLARMANTI: in Francia, una
donna muore per mano di suoi famigliari ogni tre giorni. In Marocco, sei
donne su dieci sono vittime di violenza domestica, ma solo il 3% di
loro sporge denuncia. A Cipro, una su cinque ha subito violenza sessuale
o fisica. In Tunisia, il 78% delle donne sono state molestate o
aggredite in un luogo pubblico. E in Turchia, oltre 1.400 femminicidi
hanno avuto luogo negli ultimi 5 anni. In Algeria, le donne hanno
manifestato ricordando l’assassinio di Amira, bruciata viva quest’estate
da un uomo che l’aveva molestata per strada, nella cittadina di El
Khroub, al nord di Algeri. In Algeria, tra il 2014 e il 2015, le denunce
per violenze di genere sono aumentate del 27%. Dati che fotografano
solo in parte la realtà, perché molte donne non denunciano, oppure fanno
marcia indietro per paura di rappresaglia.
«La violenza contro le
donne è l’Olocausto del XXI secolo – arriva a dire la spagnola Ana
Bella – perché nel mondo 1.200 milioni di donne sono maltrattate per il
solo fatto di essere donne, due volte la popolazione d’Europa:
indipendentemente dalla religione o dal colore della pelle, e a volte
persino dal livello economico o culturale». Quando, dopo 11 anni di
maltrattamenti famigliari, ha deciso di fuggire dal marito insieme ai
suoi 4 figli, Ana era solo una vittima. Poi ha deciso di reagire e, nel
2002, ha creato una fondazione che porta il suo nome. Oggi, aiuta ogni
anno circa 1.400 donne, dalla Spagna all’America latina. In Spagna, solo
quest’anno 39 donne sono state ammazzate da mariti o ex: «una donna
aiuta l’altra – dice – se rompi il silenzio e resisti, c’è
un’alternativa a quella di essere uccisa, essere felice».
L’ASSOCIAZIONE
DI ANA è presente anche in Messico, dove una donna su due subisce
maltrattamenti, e dove in un solo anno sono stati commessi 2.289
femminicidi. Le organizzazioni per i diritti umani hanno chiesto allo
stato messicano l’approvazione della Legge contro la tortura, ricordando
l’aumento allarmante delle torture sessuali nei confronti di donne
«indocumentadas». Un tema presente, ieri anche negli Stati uniti. In
India, si è manifestato contro «le torture e gli stupri perpetrati da
esercito e paramilitari come arma di repressione nelle zone rurali».
L’Mfpr lo porterà anche nella manifestazione di oggi a Roma.
Ieri,
l’intera America latina è scesa in piazza con la consegna «Non una di
meno» e «Se toccano una, toccano tutte». Molte recavano cartelli col
disegno di tre farfalle: «le mariposas», come venivano chiamate nella
clandestinità le 3 sorelle Mirabal, uccise dal dittatore Trujillo nella
Repubblica dominicana nel 1960 e a cui l’Onu ha dedicato la giornata del
25, il 17 dicembre del 1999. Un simbolo di resistenza. E, infatti, in
molte hanno portato il ritratto di Milagro Sala, la deputata indigena
prigioniera in Argentina nonostante l’appello dell’Onu, e della leader
mapuche cilena Francisca Linconao di cui anche Amnesty international
chiede la liberazione.