Repubblica 25.11.16
La terra desolata della democrazia
di Andrea Manzella
NESSUNO
dubita che non sia democratica la vittoria di Trump. Ma tutti temono
che la democrazia americana non sia sufficientemente attrezzata per
sostenerne il peso. Questa contraddizione è il dramma di tutte le
“vecchie” democrazie: impreparate a mettere in sicurezza fenomeni
straripanti di autoritarismi e di populismi, pur elettoralmente
legittimati.
Dappertutto, il costituzionalismo politico del nuovo
mondo “globale” deve fare uno sforzo gigantesco per “aggiornarsi”, per
trovare un equilibrio all’altezza delle minacce. Con una diversa
composizione istituzionale di poteri e contropoteri, di centro e
periferie, e con mutati concetti di sovranità e di cittadinanza. Le
democrazie del mondo devono, insomma, “reinventarsi”. “Democratizzare le
democrazie” non è un gioco di parole ma un programma di rinnovamento
istituzionale per armonizzare, nell’epoca delle masse senza partiti:
l’efficacia dei livelli di governo, gli statuti di opposizione, le zone
dei controlli neutrali, i diritti dei cittadini.
L’Italia non è in
condizioni diverse dalle altre democrazie dell’Occidente. Comunque vada
il nostro referendum (confuso con Armageddon) anche noi, come tutti gli
altri, dovremmo ammodernare la nostra Costituzione alla luce di quel
che avviene intorno e, soprattutto, dentro di noi. E anche noi — come
suggeriscono le riflessioni sull’America profonda e ignorata — dovremmo
cominciare dalle radici della convivenza sociale: le comunità locali.
Il
Presidente del Consiglio dice che avrebbe preferito un neo-Senato
composto esclusivamente da sindaci. Ha perfettamente ragione. I comuni
italiani sono 7998. I sindaci-senatori sarebbero solo 21. Ma la
questione non è di sproporzione numerica. È di sostanza rappresentativa.
Un Senato “tutti-sindaci” avrebbe avuto almeno il senso di una
rappresentanza forte e vera dei problemi del Paese reale.
Nei
comuni passano, infatti, e si incrociano le grandi crisi di un tempo non
solo italiano. In essi il morso della disoccupazione, dei “ritirati”
dal lavoro, esce dalle statistiche e si fa vita vissuta: con gli
“abbandonati” nelle grandi periferie urbane ma, forse ancor più penoso,
nel “vicinato” dei piccoli centri. Nei comuni, ancora, specie in quelli
minori: dove l’irruzione dei profughi e delle loro culture provoca
alterazioni nei modi di convivenza e nelle consuetudini locali, quale
che sia l’osservanza o la ripulsa del dovere d’accoglienza.
A ben
vedere, dunque, è sui comuni che si addensano le ansie pesanti di due
vuoti. La perdita dell’identità personale “fondata sul lavoro”. La
perdita della “coscienza di luogo”. Sono proprio quei vuoti, nel sentire
collettivo e nella rete sociale, che animano la protesta vociferante
dei populismi. Cioè di movimenti che nascono “veri”, da concretissimi
disagi, ma che poi si falsificano: per lo scarto tra velleità e
gestione, per involuzioni organizzative illiberali.
La capacità di
rappresentanza dei sindaci si è fatta perciò difficile quanto cruciale.
Si può, dunque, rimpiangere l’occasione perduta di
“costituzionalizzare” il loro lavoro. Restano, però, la loro centralità
sostanziale e la questione istituzionale dell’adeguamento delle loro
funzioni.
Nel 1993 una buona legge elettorale dette autonomia e
rilievo ad una rappresentanza comunale che era stata fino allora immersa
nella palude di patti proporzionali stipulati da lontano. Quel bene
pubblico deve rimanere fermo (contro la riproduzione, tra obbedienze e
ribellioni, di un impudente dirigismo: “populismo dall’alto”). Allora,
però, si parlò di “partito dei sindaci”: come promozione di personalità.
Ora è diverso. La “verticalizzazione” dei governi nazionali — in un
mondo “liquido” alla ricerca affannosa di condizioni di stabilità e di
“statualità” — è diventata inevitabile. Così la rappresentanza dei
sindaci significa, innanzitutto, “intermediazione”: tra gli indirizzi
politico-economici, che si giocano al centro e sul piano internazionale,
e la “scommessa di vivere” che si gioca quotidianamente nei territori.
In
questo senso, i sindaci devono poter funzionare da contropoteri
sociali, in due direzioni. Come richiami a mondi concreti: contro le
fughe in avanti del pur necessitato leaderismo nazionale. Ma anche come
frangiflutti dell’ondata di piena populista.
La miscela di
populismo e autoritarismo non è invincibile. Vedremo quale sarà la rete
di protezione che riusciranno a creare i vecchi anticorpi della
democrazia americana. Ma la convinzione è che la partita si giochi
vivificando le comunità politiche di base. Da tempo Robert Putnam aveva
denunciato la solitudine di massa nei luoghi dove Tocqueville vide la
originaria forza costitutiva dell’associazionismo americano. Per
ripetuti errori di attuazione del principio costituzionale di autonomia,
presentano uguale degrado i nostri valori locali: malgrado la loro
grande storia. Bisogna, allora e dovunque, ricreare un reticolo
istituzionale che parta dai territori “perduti” per tentare di assorbire
l’immensa bolla di delusioni e di rancori generata dalle ingiustizie,
reali e percepite, del corso del mondo. Puntare su governi
funzionalmente adeguati ai problemi dei luoghi sarebbe, anche per noi,
un inizio umile ma onesto.