Repubblica 25.11.16
Dove nasce la volontà di riformare la Costituzione
di Massimo L. Salvadori
È
un Leitmotiv dei sostenitori del No al referendum del 4 dicembre
l’argomento secondo cui è una mera forzatura propagandistica che vi sia
un nesso tra la crisi della governabilità in Italia e la Costituzione
entrata in vigore nel 1948. Su questa tesi hanno insistito e insistono
in particolare gli ex presidenti della Corte costituzionale Zagrebelski e
Onida e il magistrato Armando Spataro. Cercherò di contraddire quanto
da essi sostenuto in base a ciò che dice a chiare lettere la storia
politica e costituzionale d’Italia a partire dalla elaborazione e firma
della Costituzione oggi in vigore.
Tre i punti che intendo
sottolineare (non sono certo il primo a farlo). Primo, che il testo
costituzionale espresse un accordo raggiunto solo dopo accesi contrasti
tra i maggiori partiti emersi sulla scena dopo il 1945 — Dc, Pci e Psi —
e fu il frutto del comune interesse a trovare in un sistema a basso
tasso di governabilità del Paese una reciproca assicurazione dato il
vivo timore che i campi opposti nutrivano l’uno nei confronti
dell’altro. Secondo, che il bicameralismo perfetto, inizialmente
respinto sia da Pci e Psi, decisi sostenitori del monocameralismo (e
anche contrari alla Corte costituzionale!), sia dalla Dc, favorevole a
un Senato che rappresentasse le professioni e gli enti regionali, fu
infine individuato come strumento di quella reciproca assicurazione e
architrave per rallentare il processo legislativo mediante il ping-pong
tra le due camere. Terzo, che è contraria ad ogni evidenza storica la
presa di posizione a difesa di una architettura costituzionale che il
Parlamento — di fronte a carenze sempre più marcate — ha ripetutamente
cercato di modificare senza concludere nulla: ad opera delle Commissioni
bicamerali presiedute dal liberale Bozzi (1983-85), dal democristiano
De Mita e dalla comunista Iotti (1992-94), dal pidiessino D’Alema
(1997-98) col sostegno inziale di Berlusconi (il quale poi ha tentato a
sua volta di varare la propria riforma).
Dunque: è dal seno del
Parlamento che da quasi quarant’anni è sorta la volontà di riformare la
Costituzione. Ma ora — di fronte al dato che a farsi interprete di tale
volontà è l’attuale governo — i fautori del No la presentano come
animata da un progetto eversivo, sostenendo che la responsabilità di
quanto non funziona è da ricondursi non ai limiti della Costituzione
fondata sul bicameralismo perfetto, ma ai partiti. Non si domandano
quale sponda questa Costituzione abbia offerto e offra all’agire dei
partiti che essi deplorano?
Credo siano istruttive le riflessioni —
che, provenienti dalle parti opposte, si possono leggere nel saggio di
Guido Crainz nel volumetto edito da Donzelli Aggiornare la Costituzione —
sugli “intralci” inseriti nella Costituzione per frenare e ostacolare
l’efficienza del processo legislativo.
Affermava Togliatti in
sintonia con Nenni, entrambi piegatisi alla rinuncia al monocameralismo:
«Tutte queste norme sono state ispirate dal timore: si teme che domani
vi possa essere una maggioranza che sia espressione libera e diretta di
quelle classi lavoratrici, le quali vogliono profondamente innovare la
struttura politica, economica e sociale del Paese: (…) di qui la
pesantezza e la lentezza nella elaborazione legislativa (…) e di qui
anche quella bizzarria della Corte Costituzionale », di qui «tutto
questo sistema di inciampi, di impossibilità, di voti di fiducia, di
seconde Camere, di referendum a ripetizione, di Corti costituzionali,
ecc.». Questo il parere di Togliatti e questa l’ammissione del leader
della sinistra Dc Dossetti, il quale parlò di «una voluta intenzionalità
nel delineare certe strutture non perché funzionassero ma perché
fossero deboli (…): il governo anzitutto (…), quindi la doppia Camera,
con pari autorità ed efficacia, quindi un congegno legislativo che (…)
non poteva esprimere un’efficienza qualsiasi». De Gasperi, così come Pci
e Psi temevano la Dc, paventava «l’accesso al potere di un partito che
aveva intenzioni totalitarie e dittatoriali». Passarono gli anni e nel
1973, sulla base di una deludente esperienza, l’eminente giurista
democristiano Mortati definì il Senato «un inutile doppione»; Terracini
nel 1978 concluse che «per rendere più rapido e snello il lavoro del
Parlamento » occorreva abolire il Senato; e seguirono Iotti, Berlinguer e
Ingrao. Dalla diffusa consapevolezza della necessità di riforma della
Costituzione nacquero le citate Commissioni bicamerali e anche il
progetto di «Grande riforma», rimasto allo stadio di retorica politica,
di Craxi: espressioni ad un tempo di propositi di innovazione e di
miserandi fallimenti.
Facciano gli illustri costituzionalisti e
magistrati citati la loro battaglia, ma non mettano in un cassetto la
storia che sta dietro al progetto governativo di riforma, come se non
fosse esistita e di pregnante significato. Dimenticavo che D’Alema,
Berlusconi, Brunetta, Salvini, Grillo, Meloni, Gasparri promettono che,
caduto col No il governo dell’eversore Renzi, provvederanno essi a
varare, in tempi brevi e in concordia, le necessarie e buone riforme
istituzionali. A loro l’Italia, se gli italiani vorranno.