Repubblica 22.11.16
Massimo Cacciari
“Bisogna tornare a fare politica e rappresentare i ceti in sofferenza, altrimenti vince Grillo”
“La sinistra smetta di imitare la destra solo così si salverà”
“La gente non crede più ai partiti e dà il proprio voto a chi denuncia il disagio. Siamo alle soglie di un terremoto”
“Il declino è partito negli anni 70, quando si è iniziato a imitare il thatcherismo e il reaganismo”
intervista di Alessandra Longo
ROMA.
Dov’è finita la sinistra? Lo chiediamo a Massimo Cacciari dopo
l’inchiesta di Ezio Mauro che ha viaggiato l’Italia in cerca di una
risposta. Davvero, dov’è finita la sinistra? Cacciari fa un’analisi cupa
ma oggettiva, evoca un «terremoto» che viene da lontano, un processo di
degrado che affonda le radici nell’incapacità di rinnovarsi, nella
disgregazione della composizione sociale che era alla base delle fortune
della socialdemocrazia. La sinistra, dice, ha cominciato a morire un
po’ alla fine degli anni 70, quando è partita la grande «trasformazione
economica, sociale, culturale, tecnologica». La sinistra inizia a
perdere l’anima «quando si mette ad imitare quelli che la stanno
sconfiggendo, un inseguimento disperato del thatcherismo, del
reaganismo, degli Agnelli, di Marchionne...». E oggi Cacciari? «Oggi la
sinistra è qualcosa che può ancora essere, non è del tutto scritto che
sia destinata a sparire. Ci siamo vicini ma non è detto».
Cacciari,
lei dice che la sinistra, non solo quella italiana, non ha capito che,
dopo gli anni dei successi post-bellici, l’epoca keynesiana e
socialdemocratica, il mondo stava cambiando, doveva rivedere le sue
strategie. Torna molto indietro nel tempo...
«Se non si torna
indietro non si capisce cos’è successo e quando è cominciato il declino.
In tutti questi anni la sinistra non ha rivisto il sistema di welfare
in senso seriamente distributivo, non ha avuto nessuna idea riformista
di grande respiro, si è attaccata spasmodicamente alla Costituzione, è
diventata sempre più conservatrice nelle politiche sociali».
E oggi le periferie sono perse come viene fuori dall’inchiesta.
«Sono
30 anni che i ceti meno abbienti soffrono una diseguaglianza crescente,
il crollo del reddito, il blocco della mobilità sociale, cosa
gravissima in una democrazia. Hanno cominciato con il votare Lega, mi
ricordo gli operai dei grandi comparti manifatturieri di Vicenza, di
Verona... Un processo lungo che ha portato fin qui, con uno come Renzi,
che di sinistra non è, che si è mangiato in due morsi il partito. Un
partito che è diventato penoso. Io lo voto ancora, razionalmente, perché
così bisogna fare in politica: Hollande è meglio di Le Pen. In Germania
voterei Merkel perché mi garantisce di più».
E Renzi?
«Se continua così sarei tentato da Grillo».
Il risentimento degli esclusi, quelli che rimangono ai margini, è un’altra cosa, è di pancia.
«È
gente che non si sente rappresentata e dà il voto a chi denuncia una
situazione realissima. Il populismo non c’entra, rappresenta solo questi
processi, li manifesta. Una volta ci si affidava al partito, perché
sembrava avesse le soluzioni, ora le persone impoverite, sempre più
sole, non ci credono più. Il primo step è il disagio, la protesta. Il
secondo è il voto a chi denuncia, il terzo è la deriva di massa verso la
destra autoritaria ».
Quale step abbiamo raggiunto?
«Il
secondo. Se continua così sono cavoli duri. Grillo non è né Trump né Le
Pen, ha una storia diversa per fortuna. Il suo movimento sta facendo da
argine. Ma noi siamo sulla soglia di un mutamento di stato. È come con
il terremoto, la faglia esplode e il terreno trova un altro equilibrio
diverso dal passato, però passando attraverso morti e macerie».
La sinistra può governare senza essere fatalmente vissuta come establishment?
«Certo.
Non occorre fare opposizione alla Confindustria, alle banche. Bisogna
fare semplicemente politica, tornare a rappresentare i ceti in
sofferenza, fare discorsi di verità, smetterla di sbandare, di
assecondare e imitare la destra perché poi le contraddizioni si pagano».
C’è un modello Milano che pare funzionare, l’alleanza tra la sinistra di governo e la borghesia.
«Sala
ancora ce la fa. È stato vissuto come il meno peggio. Ma vorrei
ricordare che a Milano i Cinque Stelle non c’erano. E, come a Torino, le
periferie vivono forte il disagio».
È la sottile linea rossa tra la sinistra e gli esclusi di cui parla Ezio Mauro, cui va aggiunta la sofferenza dei giovani.
«I
giovani, li vedo all’università, si appassionano quando parli di
Europa, quando fai discorsi netti, radicali, coerenti, scappano dalla
predica del politico di turno. C’è da capirli: che leggano, che studino e
si bevano una birra».
Intanto la faglia si allarga.
«Chi ha
sale in zucca deve cercare disperatamente di riannodare i fili della
politica, di pensare al welfare abbandonando i modelli universalistici,
di rivedere la politica di redistribuzione del reddito, altro che gli 80
euro, e poi ancora le politiche fiscali, sociali. E questo vale anche
per l’Europa. Occorre un disegno politico unitario...».
In questo senso l’appuntamento con il referendum rappresenta un prima e un dopo?
«Sì,
non c’è dubbio, credo che la scelta meno peggio sia votare Sì. Mi
auguro solo che, se vince il Sì, come credo, non ci sia un’ubriacatura
da vittoria. Sarebbe peggio di perdere».