Repubblica 22.11.16
Per chi vota la paura
Parisi: “Da F.t
stupidaggine che produce effetto opposto”. E Franceschini: “Ipotesi
infondate” Tra i fattori di decisione non c’è l’incubo default.
Pagnoncelli: gli elettori non ci credono
di Alberto D’Argenio
ROMA.
«La paura - recita il Dizionario di psicologia - è un’emozione primaria
di difesa, nasce da un pericolo reale o presunto. Può essere prodotta
da un ricordo o dalla fantasia». Ma la paura dei mercati e lo spettro
dello spread in vista del referendum del 4 dicembre saranno percepiti
dagli italiani come un pericolo reale o come un rischio immaginario? E
soprattutto, favoriranno il Sì o il no? Per gli addetti ai lavori lo
spauracchio di mercati e titoli di Stato non ha più la presa di una
volta, non viene percepito - a torto o a ragione - come una minaccia
concreta. Tanto più dopo che la vittoria di Trump non ha provocato il
crollo di Wall Street e la Brexit non ha spinto nel baratro il Regno
Unito.
La sequenza degli allarmi degli ultimi giorni però è stata
impressionante. Si può partire dallo spread, il differenziale Btp-Bund
che calcola il rischio Paese: da fine estate è salito di una sessantina
di punti (ieri si è assestato a quota 178). E poi, le grande banche
internazionali hanno lanciato l’allarme instabilità nel caso di
bocciatura della riforma Boschi. Monito condiviso da Bankitalia - organo
super partes - che ha parlato di forte aumento della volatilità sui
mercati in coincidenza con il voto. Si è spinta oltre Confindustria -
associazione questa che prende posizioni politiche - per la quale il No
porterebbe a una vera tempesta sull’Italia. Il rischio instabilità è
stato alla base anche degli endorsement delle Cancellerie straniere a
Renzi e al Sì: da Angela Merkel a Barack Obama fino all’Unione europea,
tutti tifano per la vittoria del premier e della sua riforma.
Ieri
la carica è arrivata anche dai grandi media internazionali, da due
delle testate guida della comunità finanziaria globale. Per il Financial
Times - la firma è quella pesante di Wolfgang Munchau - la vittoria del
No spingerebbe l’Italia fuori dall’euro. Il Wall Street Journal dal
canto suo si “limita” a parlare di investitori che «si preparano al
tumulto » in vista del 4 dicembre.
Nel governo intanto sono cauti,
la materia scotta. Da un lato Renzi ha parlato di «ovvietà». Lo spread,
rileva, «aumenta se c’è incertezza: non è una minaccia, ma una
constatazione». «E’ un fatto normale», l’ha definito invece il ministro
Padoan. «Ma non è questione di allarmi delle élite o di complotti», ha
aggiunto riferendosi al normale nervosismo dettato dall’incertezza.
Eppure
sembra che la banale constatazione di Renzi e Padoan soccomba di fronte
a quella parola che lo stesso ministro ha ritenuto di dover citare
semplicemente per neutralizzarla: complotto. Già, perché gli italiani
sembrano invece orientati a pensarla così, che la paura sia la carta
ingannevole giocata dall’establishment e dai poteri forti per tirare la
volata al governo e favorire il Sì.
Il ricordo più recente di
grande paura collettiva è proprio quello dello spread alle stelle (570
punti base) che nel 2011 ha portato alle dimissioni di Berlusconi e
all’arrivo di Monti. Allora l’operazione fu sostenuta dall’opinione
pubblica terrorizzata dal rischio default. Ma in 5 anni molto è
cambiato. Prima la retorica di Forza Italia (copiryght Brunetta) che ha
trasformato il rischio fallimento sovrano in un complotto per abbattere
l’ex Cavaliere. Poi il Movimento 5 Stelle che con una mano di vernice ha
cancellato le differenze tra fatti e complotti, tra rischi reali e
giochi dei poteri forti.
E così si arriva all’analisi dei
sondaggisti, per i quali la paura dello spread quanto meno non sposta di
un millimetro il risultato delle urne. «Gli elettori in questo periodo
votano contro il governo, a prescindere da chi lo guidi, perché sono
alla ricerca di un generico cambiamento», spiega Nicola Piepoli.
Concorda Nando Pagnoncelli, per il quale «le opinioni non si spostano»
semplicemente perché gli italiani agli allarmi «non ci credono». Il
politologo Alessandro Campi, direttore della Rivista di politica, va
oltre e profetizza: «Nella migliore delle ipotesi questi allarmi sono
neutri, non spostano voti. Nella peggiore sono controproducenti. Di
fronte a un elettorato sfiduciato e prevenuto le fonti che lanciano gli
allarmi sono identificate con l’establishment e quindi automaticamente
squalificate». Oltretutto i toni sempre più radicali dei populisti
sterilizzano, rendono le tesi tutte uguali e anestetizzano le paure. La
spiega in modo efficace lo stesso Renato Brunetta, tra i politici più
attivi sul fronte del No: «Se parlano J.P. Morgan, Goldman Sachs,
Financial Times e magari Marchionne, la gente si incazza e vota contro».
Più cauto il politologo Roberto D’Alimonte, che l’ irritazione degli
italiani per gli allarmi la vede, ma valuta che alla fine «indispettiti e
intimoriti si bilanceranno».
Che l’argomento paura di questi
tempi sia scivoloso lo sanno anche nel Partito democratico, tanto che il
responsabile per l’Economia Filippo Taddei ci va cauto: «E’ evidente
che ci sono conseguenze per l’economia dal voto referendario, ma gli
italiani non votano per la paura del No bensì per le buone ragioni del
Sì». Il ministro Franceschini bolla la previsione di Financial Times
come «infondata». La parola definitiva in favore del complotto viene
però da Stefano Parisi. Per l’uomo che si propone di riunire i moderati
quella di Financial Times «è una stupidaggine che dicono i giornalisti
perché il no dell’Italia è democratico e libero». Chiude il cerchio il
senatore azzurro Lucio Malan per il quale «la strategia del terrore
messa in campo dai sostenitori del Sì fa dire a Ft che se vince il No
l’Italia esce dall’Unione ». E come mandante delle Cassandre identifica
proprio Renzi. Ecco servito il complotto.