lunedì 21 novembre 2016

Repubblica 21.11.16
La forbice più larga della diseguaglianza
di Thomas Picketty

DICIAMOLO subito: la vittoria di Trump si spiega innanzitutto con l’esplosione delle disuguaglianze economiche e territoriali negli Stati Uniti, in atto da vari decenni, e con l’incapacità dei successivi governi di far fronte a questi problemi.
Per lo più le amministrazioni Clinton e Obama non hanno fatto altro che accompagnare l’avanzata delle liberalizzazioni e la sacralizzazione del mercato portate avanti con Reagan e quindi coi Bush padre e figlio — quando non l’hanno addirittura esacerbata, come nel caso della deregulation finanziaria e commerciale approvata sotto Clinton. L’incapacità delle élite politico — mediatiche dell’area democratica di trarre insegnamento dal voto per Sanders e dai sospetti di contiguità con la finanza hanno fatto il resto.
Hillary Clinton ha prevalso di stretta misura nel voto popolare (60,1 milioni di voti contro 59,8 per Trump, su una popolazione adulta totale di 240 milioni), ma la partecipazione delle fasce più modeste e di quelle giovanili è stata di gran lunga insufficiente per consentirle di vincere negli Stati chiave.
Sfortunatamente il programma del nuovo presidente non farà che aggravare la tendenza all’aumento delle disuguaglianze. Trump si prepara a sopprimere l’assistenza sanitaria faticosamente concessa sotto Obama ai lavoratori poveri, e a lanciare il suo Paese in una fuga in avanti nel dumping fiscale — mentre finora gli Usa avevano resistito a questa rincorsa senza fine proveniente dall’Europa — con la riduzione dal 35% al 15% del tasso d’imposta federale sui profitti delle società.
Oltre tutto, la connotazione etnica sempre più marcata del conflitto politico americano non promette nulla di buono per il futuro, se non si troveranno nuovi compromessi: in questo Paese il 60% dei voti della maggioranza bianca va strutturalmente a uno dei due grandi partiti, mentre l’altro ottiene più del 70% dei voti delle minoranze; e la maggioranza si avvia a perdere la sua superiorità numerica (il 70% dei suffragi espressi nel 2016 contro l’80% nel 2000 e il 50% da qui al 2040).
La principale lezione per l’Europa e il mondo è chiara: è urgente riorientare la globalizzazione. Le disuguaglianze e il riscaldamento climatico sono le principali sfide del nostro tempo. Da qui la necessità di stipulare trattati internazionali che consentano di rispondere a queste sfide promuovendo un modello di sviluppo equo e sostenibile.
Questi accordi di nuovo tipo potranno anche contenere, ove necessario, alcune misure volte a facilitare gli scambi commerciali; ma non dovranno più essere centrati sulla loro liberalizzazione. Il commercio deve ridiventare ciò che non avrebbe mai dovuto cessare di essere: un mezzo al servizio di obiettivi più elevati.
Concretamente, bisogna smettere di firmare trattati internazionali di abbattimento dei diritti doganali e di altre barriere commerciali che non includano, fin dai loro primi capitoli, una serie di regole quantificate e vincolanti, per contrastare il dumping fiscale e climatico, ad esempio sotto forma di tassi minimi comuni d’imposizione sui profitti delle società e di obiettivi verificabili per le emissioni di carbonio, con le relative sanzioni. Non è più possibile negoziare trattati di libero scambio in cambio di nulla.
Da questo punto di vista, l’accordo economico e commerciale globale (CETA) tra l’Unione Europea e il Canada è un trattato d’altri tempi, e va quindi respinto. È di natura strettamente commerciale, e non contempla nessuna misura vincolante sul piano fiscale o climatico, mentre dedica alla «tutela degli investitori» un’intera sezione che consente alle multinazionali di citare gli Stati davanti a corti arbitrali private, aggirando così i tribunali pubblici chiamati a giudicare la generalità dei cittadini.
L’inquadramento proposto è palesemente insufficiente, soprattutto riguardo alla questione cruciale della remunerazione dei giudici-arbitri, e condurrà a ogni genere di derive. Nel momento stesso in cui l’imperialismo giuridico americano raddoppia il proprio peso, imponendo alle nostre imprese le sue regole e i suoi tributi, quest’indebolimento della giustizia è più che mai aberrante.
La priorità dovrebbe andare invece alla costituzione di un potere pubblico forte, con un procuratore e un’istanza europea capaci di far rispettare le proprie decisioni.
Che senso aveva firmare gli accordi di Parigi, con l’obiettivo puramente teorico di limitare il riscaldamento a 1,5° — il che richiederebbe la rinuncia all’estrazione di idrocarburi come quelli ricavati dai sali bituminosi dell’Alberta, dei quali il Canada ha rilanciato di recente lo sfruttamento — per stipulare poi, a pochi mesi di distanza, un trattato commerciale realmente vincolante, in cui non si fa il minimo cenno a questo problema?
Un trattato equilibrato tra il Canada e l’Europa, volto a promuovere un partenariato di sviluppo equo e sostenibile, dovrebbe precisare innanzitutto gli obiettivi di emissione per ciascuna delle parti, e gli impegni concreti per raggiungerli.
Sulla questione del dumping fiscale e dei tassi minimi d’imposizione sui profitti delle società, si tratterebbe evidentemente di un cambiamento totale di paradigma per l’Europa, costruita fin qui come zona di libero scambio senza regole fiscali comuni.
Ma questo cambiamento è indispensabile. Che senso ha accordarsi su una base impositiva comune — il solo cantiere in cui l’Ue abbia fatto finora qualche piccolo passo in avanti — se poi ciascun Paese può fissare un tasso vicino allo zero per attirarsi le sedi delle imprese?
È tempo di cambiare il discorso politico sulla globalizzazione: il commercio è un’ottima cosa, ma per uno sviluppo sostenibile ed equo servono anche servizi pubblici, infrastrutture, sistemi di istruzione, formazione e salute, che a loro volta esigono tassi impositivi equi. Altrimenti sarà il trumpismo a prendersi tutto.
Traduzione di Elisabetta Horvat