Repubblica 21.11.16
Nessuno va più al caffè con Sartre
Sarah Bakewell ricostruisce la storia dell’esistenzialismo e quel che resta del movimento nato attorno ai tavolini di Parigi
di Antonio Gnoli
Chissà
se oggi – nelle condizioni certo sfavorevoli che ci troviamo a vivere –
incontreremmo mai, in un caffè parigino, quel giovane trio che agli
inizi degli anni Trenta discettava delle novità accadute in Europa.
Chissà, insomma, se le labbra da cernia di Sartre o quelle più altezzose
di Aron, o magari la giovane e ambigua vestale, che rispondeva al nome
di de Beauvoir, si sarebbero messe concitatamente a discutere della fine
della democrazia e dell’avanzata imperiosa dei populismi. Non è
difficile immaginare che quel periodo presentasse alcune forti analogie
con il nostro oggi: come la perdita di fiducia in quelle élite politiche
che avrebbero dovuto affrontare il caos e non seppero farlo. In un
certo senso, i tre i nostri protagonisti hanno offerto nel corso delle
loro prestigiose carriere risposte intelligenti, ma non sempre adeguate.
Hanno immaginato – soprattutto la coppia Jean-Paul e Simone – che
l’impegno (il famoso engagement) sarebbe stato utile agli intellettuali
stanchi di essere chiamati chierici e per giunta traditori. Quanto ad
Aron, dopo quel breve periodo di intesa tra petits camarades, proseguì
autonomamente sulla sua strada disseminandola di valori atlantici e
liberali, i soli baluardi efficaci, a suo dire, contro il ritorno di
fascismi e di comunismi.
Troppa acqua è passata sotto i ponti per
non chiedersi se l’esistenzialismo, del quale almeno Sartre e de
Beauvoir, furono interpreti ascoltati e autorevoli, abbia ancora
qualcosa da dire alle nostre coscienze e ai nostri occhi sotto i quali
scorrono le pagine di Al caffè degli esistenzialisti, di Sarah Bakewell
(Fazi).
Avendo già scritto un bel libro su Montaigne, era fatale
che prima o poi Bakewell mettesse il naso in quel pulviscolo filosofico
che è stato l’esistenzialismo contemporaneo. E lo ha fatto, con molte
buone ragioni, raccontando la vita e il pensiero di diversi filosofi,
divertendosi a “fotografarli” ai caffè, molto in voga nella Parigi del
dopoguerra.
L’autrice palpita dopo aver letto La nausea di Sartre,
preferendo il romanzo sartriano allo Straniero di Camus. Non manca di
apprezzamenti ironici verso la promiscuità sessuale di certi
protagonisti (de Beauvoir in testa), segue con commozione le difficili
vicende di un personaggio come Husserl, apprezza Heidegger pur
cogliendone la povertà umana e l’insolenza teorica. Ne usciamo, insomma,
dopo oltre quattrocento pagine, con la sensazione di avere a
disposizione un quadro abbastanza fedele di che cosa sia stato quel
fenomeno filosofico e quanta moda abbia prodotto il suo stile. Come in
un’istantanea Bakewell ne fissa l’origine tra il 1932 e il 1933 «Quando
tre giovani filosofi siedono al caffè Bec-de-Gaz in Rue de Montparnasse,
a Parigi, aggiornandosi sugli ultimi pettegolezzi e bevendo la
specialità della casa: cocktail all’albicocca». Ne viene fuori un
quadretto istruttivo. Aron sempre informatissimo (a quel tempo studiava a
Berlino) suggerisce a Sartre di trascorrere un po’ di mesi in Germania.
Perché è lì che la filosofia sta facendo passi notevoli: grazie alla
fenomenologia di Husserl, e a un certo Heidegger il cui libro Essere e
tempo sta mettendo a soqquadro l’ambiente accademico. Per dei francesi,
piuttosto disinvolti, che cosa poteva avere di eccitante la
fenomenologia? Al di là delle complicazioni, dovute soprattutto alla
lingua tedesca, la fenomenologia agli occhi di Sartre sgombrava il campo
filosofico da tutte le incrostazioni interpretative. Husserl invitò i
suoi allievi ad andare alle “cose stesse”. Come se dicesse: lasciate
perdere tutto quello che la filosofia ha pensato fino a questo momento,
ignorate i sistemi, non perdete tempo a esaminare le scuole filosofiche
che si sono susseguite. Badate solo al senso delle cose. Più che ai
concetti pensate alle situazioni. Siate fenomenologi: sospendete i
giudizi e raccontate quello che vedete. L’invito del vecchio filosofo fu
accolto da Sartre: se Husserl ci incoraggia a descrivere il mondo, chi
meglio di me, che sono anche scrittore, potrà farlo? Chi più di me potrà
parlare di tutto: dai cocktail, appunto, ai camerieri che li servono,
fino all’esistenza umana che li precede. «L’esistenza precede
l’essenza», così Sar- tre formulò il suo programma filosofico. Quella
frasetta l’aveva in qualche modo orecchiata da Heidegger e adattata alla
sua visione umanistica. Il contrario, insomma, di ciò che il filosofo
tedesco intendeva con la parola “esistenza”, cioè un prerequisito
antimetafisico e non un programma per una filosofia che avrebbe preso il
nome di “esistenzialismo”. Fu grazie al successo di Sartre che
l’esistenzialismo si trasformò in una sottocultura o meglio in una moda
che Parigi cavalcò con raro tempismo: musica, pittura, letteratura,
cinema, tutto finì tra gli anni Cinquanta e Sessanta sotto il segno di
una filosofia che decretava, con qualche ritardo rispetto a Nietzsche,
la morte di Dio, la solitudine dell’uomo, il peso drammatico della
decisione. E quindi della libertà. Mai parola più compromessa e ambigua
fu adoperata con tanta disinvoltura.
Infastidito e preoccupato che
si potesse ricondurre l’esistenzialismo ai suoi “sentieri interrotti” e
al suo piccolo “Dasein” (Bakewell lo riduce a l’”essere quotidiano”),
Heidegger scrisse un libello che deluse Sartre e i suoi amici. La
lettera sull’Umanismo non solo decretava la distanza hedeggeriana
dall’esistenzialismo ma ne coglieva la fragilità speculativa.
Immaginare, insomma, che l’uomo, per quanto malconcio ed esasperato,
potesse essere protagonista di una rivoluzione filosofica era per
Heidegger un controsenso. Sartre e Heidegger si videro una sola volta.
Nel 1953, a Zähringen, la residenza cittadina di Heidegger. L’incontro,
come nota Bakewell, non andò bene, fu un dialogo tra sordi, dal quale
Sartre si congedò di pessimo umore. Ciascuno, in fondo, chiedeva ciò che
l’altro non poteva dargli. Heidegger glissò sul suo passato nazista,
Sartre non rinunciò mai all’idea dell’uomo portatore di un progetto di
libertà. Affermazione che inorridì il filosofo tedesco.
C’è da
dire in conclusione che mentre la filosofia di Heidegger – nonostante i
Quaderni neri – continua a sollecitarci, l’esistenzialismo di Sartre non
ha trovato nessuna nuova reincarnazione. Soppiantato dai postmodernismi
(a loro volta messi da parte dai nuovi realismi), e dalla post-
cibernetica, e dal post-colonialismo, l’esistenzialismo sembra
vivacchiare con lo sguardo rivolto più al passato che all’oggi. Il suo
trionfo (ma forse anche la sua rovina) fu il Sessantotto. È vero, come
sostiene Bakewell, che ha fornito un contributo fondamentale al
cambiamento delle basi del nostro vivere odierno, sostenendo il
femminismo, i diritti degli omosessuali, l’abbattimento delle divisioni
sociali, nonché le lotte contro il razzismo e il colonialismo. Ma è come
se quella carica libertaria si fosse infranta sulla durezza contorta
della realtà. Trasformando le proprie esigenze in una democrazia del
vaniloquio dove parole e simboli hanno soppiantato i fatti e deluso ogni
idea di verità possibile.
IL LIBRO Al caffé degli esistenzialisti di Sarah Bakewell (Fazi traduzione di Michele Zurlo pagg. 470 euro 20)