lunedì 21 novembre 2016

La Stampa 21.11.16
La prevalenza dell’imbecille
Un tipo umano che va sempre forte in libreria sul quale si interrogano in due saggi Ferraris e Odifreddi
Scoprendo che a volte può anche essere avvantaggiato
di Mario Baudino

Qualcuno ricorda le polemiche che si scatenarono nel ‘94, quando Dario Fo coniò il termine «imbecilgente» per gli italiani che avevano votato in massa Berlusconi? Ebbene, quel lontano putiferio non è stato un episodio isolato, né ha perso d’attualità. L’imbecille, o il cretino, o lo stupido, o l’idiota (l’area semantica è vasta ma abbastanza coerente) sfida da secoli l’orgoglio della ragione, e va da sé anche i nostri sentimenti più profondi. Smettere di discuterne pare impossibile, e a ondate si ricomincia ogni volta da zero. Perché, come dice il titolo di un pamphlet filosofico di Maurizio Ferraris (appena uscito per il Mulino) L’imbecillità è una cosa seria. Ovvero da prendere in seria considerazione, anche se a farlo si rischia di finire in un labirinto senza uscita.
Ci ha provato qualche settimana fa anche Piergiorgio Odifreddi con il suo Dizionario della stupidità (Rizzoli) che ordina una lunga serie di voci, da Matteo Renzi a Beppe Grillo, senza risparmiare le religioni, gli usi e costumi più diffusi, la politica e la cultura. Con l’ovvia premessa che se gli stupidi sono sempre gli altri (tutti gli altri, in certi casi) non possiamo certo giurare sulla nostra solitaria intelligenza. Probabilmente siamo stupidi anche noi.
Anche Rousseau...
Il problema vero, aggiunge Ferraris nel suo libro, è però quello di come rendersene finalmente conto. E anche di definire l’imbecillità. Indifferenza ai valori cognitivi può essere una buona approssimazione, basti pensare alle testarde convinzioni di chi, poniamo, teme le scie di vapore acqueo degli aerei o peggio ha orrore dei vaccini, sordo a ogni dimostrazione scientifica, o magari continua a essere convinto in buona fede che gli americani non sono sbarcati sulla Luna, ma hanno girato un film in qualche deserto remoto. Però anche sui valori cognitivi si può discutere a lungo. Troveremo sempre un premio Nobel che al di fuori del suo campo di indagine ha idee piuttosto bislacche, come Madame Curie o il filosofo Henri Bergson, affascinati da una medium e dai fantasmi che ripetutamente evocava.
Odifreddi fa una ricerca «fenomenologica», secondo la sua definizione, insomma pragmatica. Gli si può rimproverare di definire cretino tutto quanto non gli va a genio, ma fa parte del gioco. Ferraris si interroga sui principi e sugli scivoloni dei filosofi, cominciando da Nietzsche. E se sono imbecilli i filosofi (ce n’è anche per Rousseau, e come dargli torto) figuriamoci l’imbecilgente.
La conclusione? Rassegnarsi ai propri «lampi d’imbecillità» e trasformarli in una sorta di cura omeopatica. In fondo anche Cartesio si interrogava se il suo ragionare non gli fosse suggerito da un demone dispettoso. Per non parlare dei Vangeli: che cosa si intende esattamente quando si dichiarano «beati i poveri di spirito»? Lasciamo la risposta a biblisti e filologi e rivolgiamoci, come fa doverosamente Ferraris, al porto sicuro del latino: dove troviamo l’etimologia di imbecille nel termine inbaculus, ovvero senza bastone, quindi debole, fiacco, privo di un punto d’appoggio. In altri parole, indifeso, anche se la stupidità è più spesso torva e trionfante - poi va da sé ci sono quelli che si fanno semplicemente fregare dai vari Madoff globali.
Bouvard e Pécuchet
Alla stupidità Fruttero & Lucentini dedicarono - correvano gli Anni Ottanta - la monumentale trilogia sulla Prevalenza del cretino, composta di articoli scritti proprio per La Stampa sulle orme degli immarcescibili Bouvard e Pécuchet di flaubertiana memoria, e l’impressione a fine lettura è di trovarsi, pur avendo molto sorriso, di fronte a cavalieri dell’Apocalisse. Riesce di conseguenza difficile non considerare al fondo riduttiva, prigioniera di un ottimismo liberale, la classica definizione di Carlo M. Cipolla nel suo Allegro ma non troppo, contenente il celebre Saggio sulle leggi fondamentali della stupidità umana, scritto nel ’76 un po’ per scherzo, diventato un successo una decina d’anni dopo. Stupido, formalizzò lo storico dell’economia, è chi causa un danno agli altri senza averne alcun vantaggio, o addirittura nuocendo anche a sé stesso.
Sicuri? Non mancano prove del contrario, di «stupidi» cioè che se la sono cavata assai bene provocando danni d’ogni genere, o viceversa di stupidi provvidenziali non solo come il principe Myškin, L’idiota di Dostoevskij, ma anche più terra-terra nella dura realtà storica. Quanto a Ferraris si spinge anche oltre, per chiedersi, domanda cruciale, «che cosa possa indurre un essere umano a scrivere un libro sull’imbecillità». Dev’essere una forza irresistibile, perché i libri sono infiniti, dall’Elogio dell’imbecille di Pino Aprile (Piemme, 2010) al celebre Internet ci rende stupidi? di Nicholas Carr (Cortina, 2011) dove però c’è un bel punto interrogativo. Per non parlare di Umberto Eco (e infatti Ferraris ne parla, oltre a segnalarci un’immensa bibliografia sul tema): è tornato sull’argomento molte volte, e un interessante riassunto del suo punto di vista è in Non sperate di liberarvi dei libri (Bompiani, 2009) scritto in dialogo con Emmanuel Carrère.
Grandi illuminazioni
Il semiologo distingue in modo sottile tra l’imbecille, il cretino e lo stupido. Il cretino è per lui un poveraccio che non capisce quel che gli si dice e magari sbaglia mira con il cucchiaio, portandolo alla fronte e non alla bocca. L’imbecille soffre di un deficit sociale, per esempio è vittima di gaffe, dice quel che non dovrebbe dire. Lo stupido invece è veramente pericoloso, perché il suo è un deficit logico. Ragiona male. È tutto molto chiaro e distinto, ma anche il Grande Umberto potrebbe essere rimproverato di un eccessivo ottimismo della ragione. Ha elencato tre mali in fondo non incurabili, anche se nessuno è mai riuscito a curarli.
La domanda vera diventa allora non tanto come riconoscere l’imbecillità, ma che cosa farne. La risposta di Ferraris potrebbe suonare provocatoria: «Non c’è grandezza umana che non sia travagliata dall’imbecillità» e anzi «le più grandi illuminazioni vengono proprio da lì», ossia dalla presa di coscienza della propria inadeguatezza, dell’essere in- baculus. Il che non sarà incoraggiante - soprattutto di questi tempi - ma rappresenta un’alternativa alla celebre battuta di Arthur Bloch, quello della «Legge di Murphy»: «Non discutere mai con un idiota: la gente potrebbe non notare la differenza».