La Stampa 21.11.16
La prevalenza dell’imbecille
Un tipo umano che va sempre forte in libreria sul quale si interrogano in due saggi Ferraris e Odifreddi
Scoprendo che a volte può anche essere avvantaggiato
di Mario Baudino
Qualcuno
ricorda le polemiche che si scatenarono nel ‘94, quando Dario Fo coniò
il termine «imbecilgente» per gli italiani che avevano votato in massa
Berlusconi? Ebbene, quel lontano putiferio non è stato un episodio
isolato, né ha perso d’attualità. L’imbecille, o il cretino, o lo
stupido, o l’idiota (l’area semantica è vasta ma abbastanza coerente)
sfida da secoli l’orgoglio della ragione, e va da sé anche i nostri
sentimenti più profondi. Smettere di discuterne pare impossibile, e a
ondate si ricomincia ogni volta da zero. Perché, come dice il titolo di
un pamphlet filosofico di Maurizio Ferraris (appena uscito per il
Mulino) L’imbecillità è una cosa seria. Ovvero da prendere in seria
considerazione, anche se a farlo si rischia di finire in un labirinto
senza uscita.
Ci ha provato qualche settimana fa anche Piergiorgio
Odifreddi con il suo Dizionario della stupidità (Rizzoli) che ordina
una lunga serie di voci, da Matteo Renzi a Beppe Grillo, senza
risparmiare le religioni, gli usi e costumi più diffusi, la politica e
la cultura. Con l’ovvia premessa che se gli stupidi sono sempre gli
altri (tutti gli altri, in certi casi) non possiamo certo giurare sulla
nostra solitaria intelligenza. Probabilmente siamo stupidi anche noi.
Anche Rousseau...
Il
problema vero, aggiunge Ferraris nel suo libro, è però quello di come
rendersene finalmente conto. E anche di definire l’imbecillità.
Indifferenza ai valori cognitivi può essere una buona approssimazione,
basti pensare alle testarde convinzioni di chi, poniamo, teme le scie di
vapore acqueo degli aerei o peggio ha orrore dei vaccini, sordo a ogni
dimostrazione scientifica, o magari continua a essere convinto in buona
fede che gli americani non sono sbarcati sulla Luna, ma hanno girato un
film in qualche deserto remoto. Però anche sui valori cognitivi si può
discutere a lungo. Troveremo sempre un premio Nobel che al di fuori del
suo campo di indagine ha idee piuttosto bislacche, come Madame Curie o
il filosofo Henri Bergson, affascinati da una medium e dai fantasmi che
ripetutamente evocava.
Odifreddi fa una ricerca «fenomenologica»,
secondo la sua definizione, insomma pragmatica. Gli si può rimproverare
di definire cretino tutto quanto non gli va a genio, ma fa parte del
gioco. Ferraris si interroga sui principi e sugli scivoloni dei
filosofi, cominciando da Nietzsche. E se sono imbecilli i filosofi (ce
n’è anche per Rousseau, e come dargli torto) figuriamoci l’imbecilgente.
La
conclusione? Rassegnarsi ai propri «lampi d’imbecillità» e trasformarli
in una sorta di cura omeopatica. In fondo anche Cartesio si interrogava
se il suo ragionare non gli fosse suggerito da un demone dispettoso.
Per non parlare dei Vangeli: che cosa si intende esattamente quando si
dichiarano «beati i poveri di spirito»? Lasciamo la risposta a biblisti e
filologi e rivolgiamoci, come fa doverosamente Ferraris, al porto
sicuro del latino: dove troviamo l’etimologia di imbecille nel termine
inbaculus, ovvero senza bastone, quindi debole, fiacco, privo di un
punto d’appoggio. In altri parole, indifeso, anche se la stupidità è più
spesso torva e trionfante - poi va da sé ci sono quelli che si fanno
semplicemente fregare dai vari Madoff globali.
Bouvard e Pécuchet
Alla
stupidità Fruttero & Lucentini dedicarono - correvano gli Anni
Ottanta - la monumentale trilogia sulla Prevalenza del cretino, composta
di articoli scritti proprio per La Stampa sulle orme degli
immarcescibili Bouvard e Pécuchet di flaubertiana memoria, e
l’impressione a fine lettura è di trovarsi, pur avendo molto sorriso, di
fronte a cavalieri dell’Apocalisse. Riesce di conseguenza difficile non
considerare al fondo riduttiva, prigioniera di un ottimismo liberale,
la classica definizione di Carlo M. Cipolla nel suo Allegro ma non
troppo, contenente il celebre Saggio sulle leggi fondamentali della
stupidità umana, scritto nel ’76 un po’ per scherzo, diventato un
successo una decina d’anni dopo. Stupido, formalizzò lo storico
dell’economia, è chi causa un danno agli altri senza averne alcun
vantaggio, o addirittura nuocendo anche a sé stesso.
Sicuri? Non
mancano prove del contrario, di «stupidi» cioè che se la sono cavata
assai bene provocando danni d’ogni genere, o viceversa di stupidi
provvidenziali non solo come il principe Myškin, L’idiota di
Dostoevskij, ma anche più terra-terra nella dura realtà storica. Quanto a
Ferraris si spinge anche oltre, per chiedersi, domanda cruciale, «che
cosa possa indurre un essere umano a scrivere un libro
sull’imbecillità». Dev’essere una forza irresistibile, perché i libri
sono infiniti, dall’Elogio dell’imbecille di Pino Aprile (Piemme, 2010)
al celebre Internet ci rende stupidi? di Nicholas Carr (Cortina, 2011)
dove però c’è un bel punto interrogativo. Per non parlare di Umberto Eco
(e infatti Ferraris ne parla, oltre a segnalarci un’immensa
bibliografia sul tema): è tornato sull’argomento molte volte, e un
interessante riassunto del suo punto di vista è in Non sperate di
liberarvi dei libri (Bompiani, 2009) scritto in dialogo con Emmanuel
Carrère.
Grandi illuminazioni
Il semiologo distingue in modo
sottile tra l’imbecille, il cretino e lo stupido. Il cretino è per lui
un poveraccio che non capisce quel che gli si dice e magari sbaglia mira
con il cucchiaio, portandolo alla fronte e non alla bocca. L’imbecille
soffre di un deficit sociale, per esempio è vittima di gaffe, dice quel
che non dovrebbe dire. Lo stupido invece è veramente pericoloso, perché
il suo è un deficit logico. Ragiona male. È tutto molto chiaro e
distinto, ma anche il Grande Umberto potrebbe essere rimproverato di un
eccessivo ottimismo della ragione. Ha elencato tre mali in fondo non
incurabili, anche se nessuno è mai riuscito a curarli.
La domanda
vera diventa allora non tanto come riconoscere l’imbecillità, ma che
cosa farne. La risposta di Ferraris potrebbe suonare provocatoria: «Non
c’è grandezza umana che non sia travagliata dall’imbecillità» e anzi «le
più grandi illuminazioni vengono proprio da lì», ossia dalla presa di
coscienza della propria inadeguatezza, dell’essere in- baculus. Il che
non sarà incoraggiante - soprattutto di questi tempi - ma rappresenta
un’alternativa alla celebre battuta di Arthur Bloch, quello della «Legge
di Murphy»: «Non discutere mai con un idiota: la gente potrebbe non
notare la differenza».