lunedì 21 novembre 2016

Repubblica 21.11.16
Confindustria in campo “Addio investimenti se fermiamo la riforma”
Per il presidente Boccia “l’incertezza è un macigno”. “Jobs act utile ma la precarietà è ancora troppo estesa”
di Massimo Giannini

FERMARE “l’Internazionale populista”. Nella Trumposfera in cui siamo inopinatamente piombati, l’imperativo categorico risuona forte e chiaro. Dopo l’America, la minaccia “aliena” incomberà sull’Italia, dove l’ordalia referendaria su Renzi apre la prospettiva che prevalga “l’accozzaglia del no”.
LA FORMULA del premier suona irrispettosa della verità e della società. Ma in fondo non dispiace al degasperiano “Quarto Partito”, quello degli imprenditori, che rilancia una discesa in campo molto discussa: «Nei giorni scorsi - ragiona il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia - ho visto il leader degli industriali tedeschi che mi ha chiesto: “Come possiamo fermare i populismi in Europa?”. Il tema è cruciale. Per questo siamo ancora più determinati nel sostegno alla riforma costituzionale».
Se Banca d’Italia constata, Confindustria milita: «E’ normale: siamo un corpo intermedio che vuole contribuire a cambiare il Paese, in termini di maggiore competitività per le imprese. Solo il 30% degli italiani sa che l’Italia è il secondo paese industriale d’Europa dopo la Germania. E potremmo essere i primi. Ma per questo serve stabilità. Le imprese devono poter contare su un assetto istituzionale e normativo semplice e certo, nel medio periodo, altrimenti la macchina degli investimenti non riparte. Poi è decisivo rivedere il Titolo V e ristabilire un equilibrio virtuoso tra centro e territori. Queste posizioni fanno parte della tradizione riformista di Confindustria: il 23 giugno il nostro Consiglio Generale le ha approvate all’unanimità». Resta un fatto: il “voto” dei mercati, come quello delle élite finanziarie, è diventato un’arma impropria. Boccia nega: «La vittoria del No sarebbe un segnale che l’Italia non vuole cambiare, perchè tutto rimarrebbe com’è: non possiamo permettercelo».
La “svolta politica” di Confindustria produce maldipancia. C’è una “fronda” interna pronta a uscire allo scoperto dopo il 4 dicembre: «Questa è una leggenda, siamo molto più compatti di quello che raccontano. Confindustria è e resta rigorosamente a-politica e a-governativa. Detto questo, non è facile far capire a tutti perché vogliamo passare dalla difesa degli interessi a una dimensione più generale della rappresentanza. Ma è un passaggio necessario... ». Il sospetto di una forma impropria di collateralismo con il governo c’è. Nel luglio scorso Confindustria ha previsto il peggio: se non passa la riforma il Pil cala dell’1,7% e gli investimenti del 12,1%.
Un’Apocalisse. Fondata su evidenze scientifiche, o tarata su esigenze politiche? «Era un momento diverso. Il referendum era previsto in ottobre, proprio all’inizio della sessione di bilancio, e il premier minacciava di dimettersi in caso di sconfitta del Sì. Questo avrebbe voluto dire incertezza sulla legge di bilancio e sulla flessibilità Ue. In altre parole, grande instabilità, con forte impatto sullo spread...». In ogni caso il sostegno al referendum è stato “ripagato” da una legge di bilancio molto generosa con le imprese. Boccia ammette: «Il governo ha messo in campo una serie di “stimoli” importanti. Il piano Industria 4.0 è positivo non perché aiuta Confindustria, ma perché aiuta il Paese a fare un salto verso la modernizzazione. Lo stesso ragionamento vale per la detassazione del salario di produttività. Se il governo avvia una politica industriale che ci porta “dai settori ai fattori” non fa un favore a noi, ma all’Italia».
Anche il Jobs Act non sfugge alla chiave di lettura dello “scambio”. Senza la decontribuzione (costata 20 miliardi) i 650 mila nuovi posti di lavoro non ci sarebbero mai stati. «Ma anche il Jobs Act non è “un favore alle imprese”. Il bilancio è positivo anche per i lavoratori. Certo, ha funzionato il combinato disposto con la decontribuzione. Ora gli obiettivi per andare avanti sono due. Il primo è rendere davvero convenienti le assunzioni a tempo indeterminato, con un serio abbattimento del cuneo fiscale. Il secondo è combattere davvero la precarietà: se vivi da lavoratore “somministrato” non hai futuro, non puoi costruirti una famiglia».
Il “fantasma dell’instabilità”, agitato da Confindustria, sembra un alibi che giustifica il crollo degli investimenti (meno 25% dal 2007): «Per noi un recupero di “passione imprenditoriale” è necessario - ammette Boccia - dobbiamo agire secondo il pessimismo delle previsioni e l’ottimismo delle aspettative. Ma il clima di incertezza che regna nel Paese è un macigno sulle scelte degli imprenditori. Simon Peres diceva che “l’attesa della guerra è peggio della guerra”... ».
La sensazione è che la guerra sia iniziata da un pezzo. E noi, con una produzione industriale collassata del 25%, la stiamo perdendo. «Abbiamo un 20% di medie imprese che vanno molto bene, scambiano salari con produttività, hanno alta innovazione di processo e di prodotto, alta intensita di capitale e alta proiezione sui mercati esteri. Poi abbiamo un 20% di imprese che non ce la fanno, operano in settori maturi o ad alto valore aggiunto, ma non hanno innovato e non reggono la competizione globale. E poi c’è un 60% di imprese che stanno in mezzo al guado». Ora la sfida è «come si fa a traghettare quel 60% in mezzo al guado verso il 20% che sta sull’altra sponda, e non verso l’altro 20% che sta affondando». Per Confindustria Renzi «ci sta provando ». Per un’altra metà del Paese, pronta a scrivere No sulla scheda, non ci sta riuscendo. Chiunque vinca, dopo il 4 dicembre sarà un miracolo rimette insieme queste due metà.