Corriere 21.11.16
«Io, Renzi e l’accozzaglia»
di Mario Monti
È
nella natura stessa di un referenduml’aggregare i Sì e i No secondo
l’opinione che si ha sulla questione sottoposta al voto.a pagina 27
C
aro direttore, il presidente del Consiglio Matteo Renzi sabato ha
esibito un fotomontaggio, completo di fumetti, raffigurante
l’«accozzaglia»: i volti di sette persone, tra le quali quattro ex
premier, che si sono pronunciate per il No al referendum. L’opera, si è
appreso, illustrerà un dépliant che sarà spedito a tutti gli italiani
dal comitato per il Sì.
Ieri Renzi ha precisato: «Se ho offeso
qualcuno mi scuso». Per quanto mi riguarda, nessuna offesa; se mai
sorpresa per essere finito lì anch’io. Infatti, a differenza dei miei
«compagni di accozzaglia», pur avendo dichiarato che voterò No e per
quali ragioni ( Corriere della Sera , 18 e 30 ottobre scorso) non prendo
parte alla campagna referendaria.
A mio modesto avviso, il
presidente Renzi dovrebbe piuttosto rivolgere le sue scuse alla logica e
ai fatti, per ripetute mancanze di rispetto nei loro confronti. A meno
che, in epoca di politica post verità e di storytelling , l’aderenza
alla logica e ai fatti sia ormai da considerare un fastidioso orpello.
È
contro la logica, a prescindere dalle buone o cattive maniere,
l’assillante e caricaturale argomento sull’ «accozzaglia» dei No. È
nella natura stessa di un referendum l’aggregare i Sì e i No secondo
l’opinione che si ha sulla questione sottoposta al voto. Pur essendo un
tema importante, quello di una parziale riforma della Costituzione non è
una «scelta di civiltà» che consenta di separare i reprobi e i
virtuosi. Ed è persino possibile che vi siano cittadini inceneriti come
reprobi dalle saette del presidente del Consiglio e che tuttavia non
pensano che, anche in caso di vittoria del No, egli dovrebbe lasciare.
Chi scrive, ad esempio, è un cittadino che si è espresso contro questa
particolare riforma e che tuttavia non vede perché Renzi dovrebbe
lasciare il governo in caso di sconfitta del Sì. Non è una debolezza
delle ragioni del No (così come del Sì, evidentemente) se a sostenere il
No sono persone e movimenti che mai potrebbero governare insieme. Anzi,
più eterogenei sono gli orientamenti politici di quanti condividono il
No, più questo significa che le ragioni del No sono numerose e diffuse. E
sono contro i fatti molti degli argomenti usati dal presidente del
Consiglio. Ne cito alcuni tra quelli che sono stati da lui utilizzati
nei miei confronti, solo perché conosco la realtà più che in altri casi.
«Mi
dispiace il No di una parte del Parlamento che ha votato la riforma in
Aula e che poi per motivi politici ora vota No» (Renzi, 17 novembre). Il
mio nome è citato tra questi. Come ho avuto occasione di ricordare più
volte, ho votato a favore della riforma in prima lettura in Senato,
nell’agosto 2014, non in seconda e terza lettura.
«Con il No,
Monti, Salvini, Grillo, D’Alema sfruttano il 4 dicembre per riprendersi
il potere che avevano perso. Vogliono tornare loro» (Renzi, 18
novembre). Per quanto mi riguarda, Renzi può stare tranquillo. Forse
ricorderà che il «potere» me l’hanno dato il presidente della Repubblica
e il Parlamento nel novembre 2011 quando nessun politico lo voleva. È
curioso, questo addebito, mosso da chi nel febbraio 2014 è andato a
esigere il potere, con una risolutezza che gli si deve riconoscere.
«Se
voti No stai difendendo la "Casta". Sono i sostenitori della "Casta",
quelli che per anni hanno sempre detto No al cambiamento» (Renzi, 16
novembre). Se Renzi ritiene che questo addebito sia da muovere anche a
me, che voterò No, o al governo che ho guidato, sarò lieto di
discuterne.
«Monti (qui contrapposto a Salvini) ha una visione da
maestrina, che era propria del governo tecnico, dell’Europa da cui ci si
fa dettare la linea, un governo che dice "ce lo chiede l’Europa"»
(Renzi, 18 novembre). Se la narrazione non è confortata dai fatti, basta
dimenticare i fatti, questa sembra essere la posizione di Renzi anche
sui temi europei. Nel periodo del mio governo, ho sempre spiegato agli
italiani che determinate misure erano necessarie per il bene dell’Italia
e dei nostri figli. Preferivo, come è avvenuto, assumere su di me
l’impopolarità anziché vederla scaricata dagli italiani sull’Unione
Europea, come fanno di solito i politici con un esercizio in cui il
nostro presidente del Consiglio è maestro.
Quanto al modo di
battersi a Bruxelles, pima di fare affermazioni inconsistenti come
quella citata del 18 novembre sarebbe bastato che Renzi desse
un’occhiata ad una nota Ansa di tre giorni prima: «Il più noto pugno sul
tavolo lo sbattè Mario Monti nel 2012, durante la notte del 28 giugno,
in cui sfidò apertamente la Merkel: minacciò il veto all’intero
pacchetto di misure sul tavolo se non avesse avuto il via libera allo
scudo anti spread, che ha aperto la strada al programma di acquisto di
titoli di Stato della Bce».
Ma il massimo dello storytelling
avulso dai fatti Renzi l’ha raggiunto sabato. «Mille giorni fa tutti
dicevano che l’Italia avrebbe fatto la fine della Grecia». Come tutti
sanno, l’Italia ha rischiato di fare la fine della Grecia. Ma quel
rischio è stato scongiurato ben prima dell’arrivo di Renzi a Palazzo
Chigi. Quando si è insediato nel febbraio 2014 lo spread era a 190,
all’incirca come è oggi. Il mio governo se l’era trovato a 574 nel
novembre 2011 e l’aveva consegnato a Enrico Letta nell’aprile 2013 a
quota 260, insieme all’uscita dell’Italia dalla procedura di disavanzo
eccessivo. Renzi è poi arrivato a governare il solo Paese del Sud Europa
che era fuori da tale procedura e che non aveva la troika a
«governare».
Il fronte finanziario è da presidiare con attenzione,
come stanno facendo il ministro Padoan e la Banca d’Italia. Padoan ha
spiegato nel Corriere di ieri che i mercati internazionali in questa
fase sono più nervosi. È naturale che anche la scadenza referendaria
abbia una certa influenza ed è stato inopportuno avere drammatizzato
questa scadenza al di là della sua portata effettiva. Ma, come ha
illustrato ieri Luca Ricolfi sul Sole 24 Ore , il rialzo attuale dello
spread dell’Italia ha a che fare, più che con il referendum, con i
risorgenti dubbi sulla sostenibilità del debito pubblico italiano,
legati — nell’analisi di Ricolfi — alle scelte di politica economica
degli ultimi due anni. «Dai primi mesi di quest’anno lo spread
dell’Italia, che nel corso del 2015 era peggiorato di meno di quello di
Spagna e Portogallo, comincia a evolvere (negativamente) come quello del
Portogallo, peggio di quello della Spagna e persino peggio di quello
della Grecia». Invece di parlare di Grecia a sproposito, cerchiamo di
fare il necessario per ancorare definitivamente la nave della finanza
italiana in un porto sicuro, prima che arrivi una prossima tempesta.