Repubblica 20.11.16
Il capitalismo secondo Donald
Le imprese di Trump rappresentano il simbolo dell’economia malata che il tycoon attaccava in campagna elettorale
di Mariana Mazzucato
TRUMP
ha vinto perché si è presentato, senza alcuna vergogna, come il
paladino dei diseredati. Più dei 16 rivali repubblicani che si è
lasciato dietro, e più della candidata democratica che ha sconfitto, ha
guidato la carica di quelli che sentivano di essere stati lasciati
indietro dalla globalizzazione. Ha incanalato e attizzato la rabbia
incipiente, ha infiammato le divisioni razziali e sfruttato una
percezione di bruciante ingiustizia verso un sistema “truccato” a
sfavore della gente comune. È stato il sedicente vincitore che sa come
si gestisce il sistema, l’uomo forte che solo può riuscire a rimetterlo
in carreggiata. Per Trump, come per i fautori della Brexit, il nemico
era l’esterno.
I MESSICANI, i cinesi (il più grande “furto” nella
storia umana), i musulmani, perfino gli alleati della Nato. I temi
economici e la sicurezza si mescolavano fra loro: è tempo di mettere i
vagoni in cerchio, l’America e gli americani vengono per primi. Trump ha
vinto perché ha offerto una narrazione plausibile, alle orecchie di
molti, dei fallimenti della politica economica americana che ha lasciato
indietro così tante persone, fallimenti che risalgono a trent’anni
prima del tracollo economico del 2008.
È stato efficace quando ha
parlato delle conseguenze di un’economia malata, ma la sua diagnosi non
potrebbe essere più sbagliata. Ha vinto gettando la colpa su forze
esterne, commerci internazionali e immigrazione. La verità va cercata
molto più vicino a casa: sono le azioni delle aziende americane, come la
sua, la ragione di fondo dell’incapacità dell’economia di garantire un
tenore di vita crescente agli americani comuni. Hanno fatto soldi
estraendo valore, non creandolo. E dopo la crisi del 2008 il problema
non ha fatto che aggravarsi.
La rivoluzione del valore per
l’azionista negli anni Ottanta ha prodotto un modello di governo di
impresa che dà la priorità agli utili trimestrali rispetto agli
investimenti in capacità produttiva. Le aziende spendono sempre più
spesso i loro profitti, attualmente a livelli record, per il riacquisto
di azioni proprie, per spingere in alto la quotazione del titolo
azionario, le stock options e le retribuzioni dei manager. Tutto questo
ha portato a un’economia finanziarizzata, che molte delle politiche di
Trump, come l’abbassamento dell’aliquota sui redditi societari, non
faranno che aggravare.
Fino agli anni Ottanta i salari tenevano il
passo della produttività, ma dopo non più, e i sindacati si sono
indeboliti. Quando i salari non sono più riusciti a tenere il passo del
costo della vita, per coprire l’ammanco è cresciuto l’indebitamento
personale. Questo aumento dell’indebitamento personale ha dato vita a
nuove tipologie di strumenti finanziari che succhiano via dal sistema la
linfa vitale, portando a un’economia sempre più finanziarizzata. La
crescita dell’intermediazione finanziaria in percentuale del Pil
sopravanza la crescita del resto dell’economia.
La globalizzazione
del capitale (in contrasto con quella del lavoro) implica che quando la
crescita stenta il capitale può andarsene altrove. Il comportamento di
Trump — creare imprese, lasciarle fallire, evitare di pagare i
fornitori, usare la normativa sui fallimenti per eludere le tasse per
decenni e poi creare un’altra impresa da qualche altra parte — è il
simbolo perfetto di questa forma di capitalismo improntata alla
spoliazione delle attività.
Al cuore del problema c’è la
violazione del contratto non scritto tra capitale e lavoro (il senso di
una condivisione degli obiettivi e dei benefici tra i lavoratori
americani e i loro datori di lavoro) e l’incapacità, a essa collegata,
di aiutare i lavoratori americani ad adattarsi ai cambiamenti
strutturali e tecnologici. Non sono i robot il nemico.
Il
ragionamento che doveva essere fatto nel 2008 non è mai arrivato. Non si
è fatto abbastanza per riformare il modello di capitalismo che è
all’origine, di per sé, dell’ascesa di Trump. Possiamo soltanto sperare
che questa elezione finalmente apra gli occhi ai suoi avversari, facendo
capire perché c’è bisogno di idee nuove.
Perché non è questa
l’unica strada. Per Trump il ruolo dello Stato si limita al
protezionismo e al finanziamento di cose fondamentali come le
infrastrutture, ma quello di cui c’è bisogno è uno Stato molto più
attivo, in grado di affrontare i problemi della società attraverso
investimenti in innovazione, per stimolare gli investimenti privati e
dare una direzione alla crescita.
Abbiamo bisogno di un deciso
cambio di rotta in favore di una crescita trainata dagli investimenti,
che sostituisca l’attuale modello trainato dai consumi e alimentato dal
credito, che mette ancora più pressione sui più deboli. Combattere la
disuguaglianza dovrebbe essere un obiettivo centrale della politica
economica, per ragioni economiche che sono rilevanti quanto le ragioni
sociali. Le aziende devono tornare a essere in sintonia con la società,
dobbiamo instillare in loro un senso del dovere più ampio, che
ricompensi la creazione di valore più che l’estrazione di valore. In
altri Paesi, come la Germania e i Paesi scandinavi, esiste una forma più
partecipativa di stakeholder capitalism, che prevede un ruolo per i
lavoratori nei consigli di amministrazione delle imprese.
Il
trumpismo probabilmente è un’espressione politica esclusivamente
americana, ma le disfunzioni del capitalismo che hanno favorito la sua
emersione non sono una prerogativa degli Stati Uniti. Le soluzioni
specifiche possono differire, ma le crepe dei modelli di capitalismo
europei sono in buona parte le stesse. Ora più che mai l’Europa deve
trovare il suo linguaggio e le sue politiche, se vogliamo risolvere la
crisi politica, sociale ed economica su questa sponda dell’Atlantico.
Traduzione di Fabio Galimberti