Corriere 20.11.16
La Russia segue le orme degli zar
Ma la colpa è anche della Nato
di Antonio Carioti
Se
volete ascoltare dei giudizi spiazzanti, Sergio Romano fa per voi. Non
esita a definire il Kgb sovietico «una fucina di talenti» o a escludere
che la Russia possa diventare una democrazia, non solo per la sua storia
imperiale, ma per le stesse dimensioni geografiche di quell’immenso
Paese. Se poi gli si ricorda, come ha fatto ieri il direttore del
«Corriere della Sera» Luciano Fontana, che Vladimir Putin ha il vizio di
mettere gli oppositori in galera, per non parlare dei personaggi
scomodi misteriosamente assassinati, Romano nota che sul leader turco
Recep Tayyip Erdogan gravano ombre dello stesso genere, ma gli
occidentali verso di lui sono assai più indulgenti.
L’incontro
tenuto al Museo del Risorgimento di Milano nell’ambito di BookCity, che
ha visto l’ex ambasciatore a Mosca interloquire con Fontana, non ha
avuto soltanto la funzione di presentare il nuovo libro di Romano Putin e
la ricostruzione della Grande Russia (Longanesi): è stato anche
un’occasione per fare il punto su una situazione internazionale
ulteriormente complicata dal prossimo arrivo alla Casa Bianca del
vulcanico Donald Trump.
Romano non si stupisce della soddisfazione
con cui il Cremlino ha accolto l’esito delle elezioni americane: «Anche
in epoca sovietica — ha osservato — Mosca preferiva avere a che fare
con presidenti repubblicani, più realisti e meno interventisti. Non
bisogna dimenticare che George Bush senior, dopo la caduta del Muro di
Berlino, aveva promesso a Mikhail Gorbaciov che la Nato non si sarebbe
allargata verso Est. Disattendere quell’impegno è stato un errore, che
ha acuito la diffidenza e il risentimento dei russi».
A tal
proposito Fontana ha ricordato l’intervista concessagli al Cremlino nel
giugno 2015, in cui Putin aveva manifestato tutto il suo disappunto per
l’estensione dell’alleanza militare occidentale fin dentro i confini di
quella che un tempo era l’Unione Sovietica. «C’è un evidente contrasto
tra il modo in cui la Russia si percepisce, cioè come una grande
potenza, e la considerazione che ne ha la dottrina militare americana,
nella quale non le viene riconosciuto un ruolo di primo piano», ha
rilevato il direttore del «Corriere».
«Mosca — ha aggiunto Romano —
non poteva rimanere inerte di fronte all’ipotesi che Georgia e Ucraina
entrassero nella Nato. Né poteva tollerare il modo in cui gli
occidentali hanno rinunciato al ruolo di garanti che si erano assunti a
Kiev, lasciando che i nazionalisti ucraini stracciassero un accordo
appena raggiunto e prendessero il sopravvento con un colpo di mano».
Così
Putin ha rilanciato la vocazione imperiale russa, con l’appoggio della
Chiesa. Nel suo ufficio al Cremlino, ha sottolineato Fontana, nulla
ricorda il passato comunista, ma ci sono i busti degli zar più
importanti e anche un’immagine dell’apostolo Andrea, che la tradizione
religiosa cristiana ortodossa considera superiore a San Pietro.
Tuttavia
Putin, ha osservato Romano, inizialmente si presentò soprattutto come
un modernizzatore: «Era consapevole che la Russia necessitava di una
rivoluzione economica per disfarsi dell’eredità sovietica e impiantare
industrie competitive. Sarebbe stata possibile una proficua
collaborazione con l’Europa e molti in Italia lo capirono. Ma le nuove
tensioni l’hanno resa impossibile. Per giunta ora ci sono le sanzioni
contro Mosca, che hanno un doppio effetto negativo: favoriscono i
traffici illeciti dell’economia occulta e inaspriscono il rancore
nazionalista dei russi».
Quando poi Fontana gli ha domandato se
non gli dia fastidio apparire come l’avvocato del Cremlino, Romano non
si è tirato indietro: «Sono così annoiato e irritato dai pregiudizi di
chi dimentica gli errori dell’Occidente che mi sono quasi sentito
chiamato a fare il difensore d’ufficio di un imputato sulla cui
colpevolezza nutro più di un dubbio».