Repubblica 1.11.16
Uno sciame sul referendum
di Stefano Folli
SULLO
sfondo della tragedia che ha colpito le popolazioni dell’Appennino, si
sono infittite per almeno 24 ore le voci che ipotizzano un rinvio del
referendum: dal 4 dicembre alla fine dell’inverno, verso quella
primavera che in Italia è da sempre la stagione propizia per votare.
QUESTO
consentirebbe alle pubbliche autorità di concentrarsi sull’emergenza in
atto — e che nessuno è in grado di prevedere quando finirà — , mettendo
tra parentesi la grande distrazione collettiva rappresentata da una
scadenza peraltro imposta dalla Costituzione. Scadenza che dalla metà di
maggio sta monopolizzando il dibattito pubblico fin quasi a
paralizzarlo, soprattutto a causa dell’instancabile protagonismo del
presidente del Consiglio.
Ieri sera il premier ha tagliato corto,
smentendo l’ipotesi in modo netto. E ha fatto bene perché si stava
creando quella tipica zona grigia in cui il verosimile tende a diventare
vero. Peraltro l’operazione era tutt’altro che campata in aria. Lo
dimostrano due indizi ben precisi. Il primo è il richiamo dello stesso
Renzi alla responsabilità nazionale dopo il nuovo terremoto. Richiamo
rivolto alle opposizioni, è ovvio, affinché abbassino il tono delle
polemiche quotidiane e s’impegnino a creare un clima di maggiore
collaborazione in Parlamento e nel paese. Sono parole abbastanza
inusuali sulla bocca del premier, uomo che d’istinto tende a dividere
più che a unire, ma non sono cadute nel vuoto. Se si tratta di
intervenire per agevolare le misure di soccorso e predisporre la
ricostruzione, persino Grillo ha dichiarato un certo grado di
disponibilità. Lo stesso hanno fatto gli esponenti di Forza Italia, da
Brunetta a Gasparri. Ma è solo questo che interessa a Renzi? Ridurre le
polemiche per semplificare gli aiuti agli sfollati?
Molti, magari a
torto e con una punta di malizia, vedono nell’uscita del premier un
tentativo legittimo di servirsi del clima di unità per disinnescare le
tensioni referendarie a tutto vantaggio del “Sì”. È noto, del resto, che
le calamità naturali tendono a riunire il paese dietro chi governa,
purché questi dimostri efficienza e serietà nell’azione di soccorso. E
stavolta, a differenza del 1980 in Irpinia, il vertice istituzionale ha
dato pieno sostegno all’esecutivo. Mattarella ha insistito sulla
coesione nazionale in perfetta sintonia con Renzi: l’opposto esatto di
quanto avvenne 36 anni fa, quando la veemenza di Pertini di fronte alla
devastazione si risolse in una delegittimazione del governo di allora,
guidato da Forlani.
È a questo punto che si inseriscono le voci a
favore del rinvio del referendum. Con una logica facile da interpretare:
se l’atmosfera di solidarietà attenua i contrasti e svelenisce la
campagna elettorale, è possibile fare un passo in più e rimandare la
consultazione a tempi migliori. Ciò aiuterebbe la fase dell’emergenza e
allontanerebbe anche il rischio di una vittoria del “No” in dicembre,
vittoria che oggi la maggior parte dei sondaggi lascia intravedere. E il
“No”, pur senza i drammi che vengono evocati, comporterebbe un certo
numero di conseguenze politiche e istituzionali. Non è strano che a Roma
tale prospettiva produca dubbi e interrogativi. Il fatto che a
sollevare la questione del rinvio sia stato Castagnetti, figura
autorevole ed equilibrata della sinistra cattolica oggi nel Pd, è
significativo.
Castagnetti ha senza dubbio agito di propria
iniziativa e non è quindi appropriato ricordare in questa circostanza i
rapporti di amicizia che lo legano a Mattarella. Tuttavia la sua mossa è
servita a saggiare il terreno e non a caso è stata poi rilanciata dal
centrista Sacconi. Troppo poco per creare una massa critica, abbastanza
per alimentare qualche speculazione. Renzi, come si è detto, in
apparenza ha chiuso la porta. E si capisce. Se davvero il governo
scegliesse la strada del rinvio, avrebbe il consenso della sua
maggioranza, ma scatenerebbe una brutale reazione dei vari segmenti
dell’opposizione. E c’è da credere che per lo stesso Berlusconi sarebbe
impossibile spezzare una lancia in favore di Renzi, dovendo fronteggiare
la ribellione di leghisti e Fratelli d’Italia.