Corriere 1.11.16
La cattiva coscienza in politica
di Angelo Panebianco
I
tentativi della politica di rintuzzare la sfida dell’antipolitica sono
fiacchi, controproducenti, spesso corrivi, culturalmente subalterni al
nemico. Come quando, ad esempio, a proposito della riforma
costituzionale, si liscia il pelo al gatto dell’antipolitica presentando
come una delle virtù principali della riforma la riduzione del numero
dei parlamentari e dei costi della politica, un aspetto secondario
rispetto a quelli che davvero contano: fine del bicameralismo paritario,
indebolimento dei (oggi fortissimi) poteri di veto, maggiore stabilità e
maggiore capacità decisionale dei governi.
Ci sono due tipi di
antipolitica, una vera e una finta. L’antipolitica vera non è oggi di
moda (lo è stata ai tempi di Reagan e Thatcher). È quella che non vuole
una politica impicciona, che ha per ideale — da perseguire benché non
possa mai essere compiutamente realizzato — lo «Stato minimo», uno Stato
che si occupi di fronteggiare emergenze e sfide alla sicurezza e di
produrre pochi beni pubblici essenziali, lasciando il resto al mercato e
al libero associazionismo volontario. Ma non è questa l’antipolitica
oggi di moda. È di moda l’antipolitica finta, la quale convoglia il
disprezzo dei cittadini sulla politica ma pretende altresì che la
politica resti l’impicciona di sempre (non si propongono privatizzazioni
e liberalizzazioni ma protezionismo e dosi ancor più massicce di
statalismo). L’antipolitica oggi di moda è un ossimoro: è
un’antipolitica statalista.
C osa risponde la politica a questa
antipolitica, cosa risponde quando l’antipolitica ripropone il mito del
cittadino comune (o dell’Uomo qualunque) che sarebbe in grado di
governare la cosa pubblica meglio — con più efficacia e con meno costi —
dei politici di professione? La politica non sa cosa rispondere,
balbetta frasi sconnesse. Non è capace per lo più di rintuzzare la sfida
con argomenti seri in difesa di se stessa e delle proprie virtù.
Certamente
l’antipolitica non nasce sotto un cavolo né senza ragioni. La ragione
principale del suo successo è che, sfiancati da una lunga crisi
economica, i cittadini non possono più tollerare le cattive abitudini,
lo spreco di denaro pubblico, molti chiedono (e hanno ragione) una
politica più sobria, meno disinvolta nell’impiego dei soldi dei
contribuenti. Ma il lecito slitta nell’illecito quando, estremizzando,
si abbracciano i peggiori argomenti affioranti dal passato, da un’antica
tradizione antidemocratica e antiparlamentare. Si passa all’illecito
quando si sostengono tre tesi, diverse ma collegate. La prima dice che i
politici sono «cittadini come tutti gli altri». La seconda afferma che
qualunque cittadino (come la «cuoca» di Lenin) è in grado di
amministrare la cosa pubblica. La terza (ma qui gioca, oltre
all’ideologia antidemocratica anche quella antiscientifica) sostiene che
non solo una «competenza politica» specifica ma anche le altre
competenze (si tratti di competenze amministrative o di saperi
tecnico-scientifici), quelle che, in principio, servono a coadiuvare
l’azione dei politici, non hanno valore: conta solo il volere del
popolo, e il volere è potere, non esistono vincoli od ostacoli
(finanziari, tecnici) che rendano indispensabile il ricorso alle
competenze. Basta volerlo e, ad esempio, si può dare il salario minimo a
tutti riducendo contemporaneamente le tasse o distribuire benessere e
fare a meno della libera circolazione delle merci.
Quanto alla
prima tesi, chi-unque affermi che i politici, anche quelli eletti, siano
«cittadini come tutti gli altri» ha urgente bisogno di qualche lezione
di educazione civica. I politici eletti non lo sono affatto. I cittadini
comuni rappresentano solo se stessi. Quei politici rappresentano i loro
elettori. C’è in gioco il delicatissimo rapporto di rappresentanza
(l’essenza della democrazia moderna) il quale rende il politico eletto
diverso dal cittadino comune. La tesi «il politico è un cittadino come
tutti gli altri» nega valore alla democrazia rappresentativa. Deve
essere rintuzzata da chiunque la apprezzi pensando che essa, pur con i
suoi limiti, sia l’unica possibile democrazia. È il rapporto di
rappresentanza che rende necessarie quelle guarentigie (inaccettabili
«privilegi» per gli esponenti dell’antipolitica), che vanno
dall’immunità parlamentare (del tempo che fu) alla disponibilità di
risorse economiche necessarie a svolgere i compiti di rappresentanza.
Anche
la seconda tesi non sta in piedi. Non è vero che chiunque possa
improvvisarsi politico e magari amministrare la cosa pubblica ai massimi
livelli. Fatta eccezione per pochissimi particolarmente dotati, ai più
alti livelli conviene arrivare dopo una lunga gavetta politica. In
Italia, un tempo erano i partiti ad addestrare le persone. Oggi non più.
Ma partiti come quelli di allora non sono indispensabili. Negli Stati
Uniti, ad esempio, partiti di tipo italiano non ce ne sono mai stati ma
sono comunque sempre esistiti percorsi alternativi in cui i politici
tuttora si formano e acquistano competenze. I Trump non sono la regola.
Le
assemblee rappresentative, locali e nazionali, sono tipicamente le
migliori palestre per la formazione di politici competenti, in grado poi
di governare. Governare significa organizzare il consenso, formare
coalizioni fra interessi anche divergenti e mantenerle unite mentre si
affrontano i vari problemi pubblici. Chi crede che ciò sia alla portata
di chiunque prende fischi per fiaschi.
Se l’antiparlamentarismo e
l’ostilità per la democrazia rappresentativa sono alla base delle
suddette tesi, si deve soprattutto al pregiudizio antiscientifico (le
scie chimiche, la polemica sulle vaccinazioni) la svalorizzazione delle
competenze altre, di quelle competenze non politiche che tuttavia
servono alla politica per affrontare i vari temi dell’agenda pubblica.
Nonostante
la loro inconsistenza, le tesi antipolitiche hanno successo, si
diffondono e si radicano. Possono farlo impunemente perché la politica
non sa ribattere colpo su colpo, non sa contrapporre argomenti seri,
forti e duri in difesa di se stessa, della propria indispensabilità,
delle proprie virtù.
Non è stata fin qui capace di farlo a causa
della cattiva coscienza, della consapevolezza degli errori accumulati.
Emendarsene è necessario. Ma abbracciare i cattivi argomenti
dell’antipolitica, non difendere con fierezza le virtù della democrazia
rappresentativa, significa lasciare il campo senza combattere, significa
suicidarsi.